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 2014  marzo 31 Lunedì calendario

LA RAPINA DEL SECOLO DI LOS ANGELES

Lo scorso autunno Los Ange­les ha cele­brato in pompa magna il cen­te­na­rio del «Los Ange­les Acque­duct», il canale che rifor­ni­sce d’acqua la città inau­gu­rato nel 1913. L’anniversario è stato com­me­mo­rato da gon­fa­loni appesi ai lam­pioni delle mag­giori arte­rie cit­ta­dine e l’acquedotto cele­brato come «sor­gente di vita» in alti­so­nanti arti­coli di gior­nale. Plauso per un’opera di inge­gne­ria idrica che rende bene la misura dell’importanza tut­tora attri­buita all’acqua in que­sta regione – per­lo­più in fun­zione della sua cro­nica scar­sità. Si dà il caso, infatti, che nell’inverno appena con­cluso sia pio­vuto meno che in ogni anno dal 1850, quando la Cali­for­nia, da poco strap­pata al Mes­sico, è diven­tata uno stato ame­ri­cano. Ine­vi­ta­bile che nel mezzo della peg­giore sic­cità a memo­ria d’uomo le com­me­mo­ra­zioni civi­che abbiano assunto un che di rito pro­pi­zia­to­rio, una litur­gia del «cargo cult» che in que­sta città come nell’intero qua­drante sud occi­den­tale d’America è legato alla risorsa più pre­ziosa e scarsa e alla grande e perenne sete.
Le fasi aride come l’attuale in que­sta regione degli Sta­tes sono una cer­tezza cli­ma­tica che torna con ciclica rego­la­rità. E ogni volta ram­men­tano come la Cali­for­nia e l’Ovest ame­ri­cano (gran parte di Nevada, Utah, Ari­zona e Nuovo Mes­sico, parti del Colo­rado e del Texas) siano sostan­zial­mente regioni deser­ti­che in cui negli ultimi 100 anni si sono inse­diate 60 milioni di per­sone. Que­sta colo­niz­za­zione arbi­tra­ria, senza logica geo­gra­fica e soprat­tutto senza riguardo per le risorse natu­rali, è avve­nuta in una regione dove oltre­tutto esi­ste ampia docu­men­ta­zione archeo­lo­gica di civiltà indi­gene la cui scom­parsa viene ormai attri­buita pro­prio a cause cli­ma­ti­che (ad esem­pio quella rupe­stre degli indiani Ana­sazi). Oggi parados­sal­mente – assur­da­mente – quelle che erano le regioni più ino­spi­tali del con­ti­nente sono diven­tate l’epicentro della cre­scita demo­gra­fica del paese.
Los Ange­les, senza inse­na­tura, senza porto natu­rale o un fiume navi­ga­bile, priva di vere risorse mine­ra­rie e cir­con­data dall’aridità impla­ca­bile del Mojave è il pro­to­tipo ori­gi­nale di que­sto svi­luppo «con­tro­na­tura» pre­di­cato sull’irrigazione su scala masto­don­tica. Per un secolo il Pue­blo de Los Ange­les rimase poco più di un bivacco dei frati fran­ce­scani spa­gnoli che l’avevano fon­dato, cir­con­dato da ster­pa­glia, mac­chia medi­ter­ra­nea e da pic­cole col­ti­va­zioni in balia di un clima impre­ve­di­bile. A fine ‘800, gra­zie allo scalo fer­ro­via­rio della Union Paci­fic, la popo­la­zione era arri­vata a 80.000 abi­tanti e nel 1903 aveva già esau­rito l’acqua dell’esiguo Los Ange­les River, il tor­rente che rac­co­glieva le acque sta­gio­nali delle vicine mon­ta­gne San Gabriel.
Non a caso chi ancora oggi più si avvi­cina a un santo patrono, colui al quale è inti­to­lata una delle strade più cele­bri della città, Mulhol­land Drive, è l’ingegnere che pro­gettò il canale lungo 674 chi­lo­me­tri che a que­sto lembo di deserto meri­dio­nale portò l’acqua che nei decenni suc­ces­sivi avrebbe per­messo l’insediamento di oltre 10 milioni di esseri umani. Wil­liam Mulhol­land era un inge­gnere auto­di­datta irlan­dese arri­vato in Cali­for­nia per ten­tare la for­tuna come cer­ca­tore d’oro, osses­sio­nato dall’approvvigionamento idrico della città. Finan­ziato dai petro­lieri, baroni fer­ro­viari e spe­cu­la­tori dell’edilizia e agroin­du­striali che rap­pre­sen­ta­vano gli inte­ressi fon­da­tivi della gio­vane Los Ange­les, l’acqua decise di andarla a pren­dere alle pen­dici della Sierra Nevada orien­tale, nella ver­deg­giante valle dell’Owens, 600 km a nord, e tra­spor­tarla attra­verso l’infuocato deserto Mojave.
Gli agenti del Depart­ment of Water and Power di Los Ange­les comin­cia­rono ad acqui­sire i diritti d’uso dell’acqua dagli agri­col­tori della Owens Val­ley sotto le men­tite spo­glie di fan­to­ma­tici «otti­miz­za­tori dell’ irri­ga­zione». E quando con pro­di­to­rietà da insi­der tra­der ante lit­te­ram ebbero in mano i neces­sari pac­chetti di mag­gio­ranza sulle acque mon­tane, annun­cia­rono la diver­sione nel canale in costru­zione. In sostanza avvia­rono il com­mis­sa­ria­mento delle acque che avrebbe con­dan­nato la ridente val­lata a tra­sfor­marsi in pol­ve­roso deserto. In quel momento il bacino aveva già perso metà del pro­prio volume ed era avviato a pro­sciu­garsi. 700 fami­glie di agri­col­tori locali occu­pa­rono allora le chiuse e ten­ta­rono di dirot­tare il flusso dell’acquedotto nuo­va­mente verso i campi mori­bondi. Los Ange­les rispose inviando cen­ti­naia di agenti di poli­zia men­tre gli sce­riffi del luogo pre­sero la parte dei ribelli.
Lo scon­tro armato venne evi­tato in extre­mis solo da un accordo che avrebbe resti­tuito una parte delle acqua ma che non fu mai rispet­tato da Los Ange­les. Tanto che una cam­pa­gna di atten­tati dina­mi­tardi con­tro l’acquedotto – 17 in tutto — sarebbe con­ti­nuata per diversi anni fin quando la rivolta dell’acqua non venne sedata con la legge mar­ziale e l’istituzione di guar­ni­gioni con mitra­glia­trici poste ad inter­valli rego­lari lungo tutto il per­corso della tubatura.
La vicenda è accen­nata in chiave di noir nello splen­dido Chi­na­town di Roman Polan­ski (nel film Mulhol­land è l’inquietante patriarca inter­pre­tato da John Huston) e costi­tui­sce il «pec­cato ori­gi­nale» del trionfo di Los Ange­les. Un’allegoria per­fetta per l’ipersviluppo degli stati dell’Ovest. L’esproprio delle acque è stato repli­cato in varia misura da tutte le metro­poli del deserto: la fon­da­zione di Phoe­nix e Las Vegas, la cre­scita di Salt Lake City e San Diego sono dovute a mas­sicce opere di irri­ga­zione, dato che come dichiarò all’epoca il mini­stro degli interni di Her­bert Hoo­ver, Ray Lyman Wil­bur, «con l’aggiunta di acqua, la con­qui­sta del Sudo­vest assi­cu­rerà la cre­scita di una grande e sta­bile civiltà».
Un secolo dopo, nel mezzo dell’ennesima dram­ma­tica sic­cità, e ora con milioni di abi­tanti che dipen­dono da una risorsa ancora altret­tanto incerta, il costo della «grande civiltà», quella dei 100 campi da golf di Palm Springs, delle mega-fontane di Las Vegas, delle mille subur­bie spun­tate come fun­ghi nel deserto, è infine ineluttabile.
Appena fuori Bishop, capo­luogo della Owens Val­ley, ancora oggi ci sono incon­grui tom­bini recanti la dici­tura «acque di Los Ange­les» e le chiuse sono ancora pro­tette da impo­nenti reti­co­lati spi­nati con la stessa scritta.
Ma quando negli anni ’70 il Depart­ment of Water and Power decise di met­tere in atto la terza fase del pro­getto Mulhol­land, andando a pescare ancora più a nord nelle acque vul­ca­ni­che di Mono Lake, con­dan­nando anche que­sto splen­dido lago alpino a una morte sicura, la cam­pa­gna per sal­varlo diventò subito una pie­tra miliare del movi­mento eco­lo­gi­sta cali­for­niano, che orga­nizzò pro­te­ste e peti­zioni e ricorse in tri­bu­nale per fer­mare la con­qui­sta dell’acqua comin­ciata 80 anni prima.
Nel 1988 la corte fede­rale decretò che l’intrinseco inte­resse alla tutela del patri­mo­nio natu­rale pre­va­leva su quelli di sin­gole muni­ci­pa­lità; Los Ange­les sta­volta dovette inter­rom­pere i pre­lievi e isti­tuire invece misure di rispar­mio idrico. Il lago, una delle mera­vi­glie natu­rali della Sierra Nevada, venne sal­vato e oggi sta len­ta­mente recu­pe­rando volume.