Salvatore Maria Righi, l’Unità 6/4/2014, 6 aprile 2014
IL GREGGE ADOTTATO DAL WEB «COSÌ SALVO IL MIO LAVORO»
«Ferie? Io? Sì, il giorno in cui mi sono sposato. Soldi non ce n’erano. E non ce ne sono nemmeno ora». Fosse stato per lui, per Emilio Concas, barba bianca, folta e rassicurante da profeta, una vita di lavoro da far impallidire anche il più tosto dei cinesi, non ci voleva poi molto a mettere giù un Jobs act. La sua storia coincide con quella di un popolo intero: pastore figlio di pastori, mezzo secolo a coltivare greggi di pecore nel cuore dell’isola, tra Cagliari e l’entroterra a nord. Un pezzo di Sardegna in carne e ossa, insomma, fiera e tenace proprio come te l’aspetti: quella che c’era e che ora non c’è più. Che arranca, anzi, per gli effetti di una crisi che ha devastato gli allevamenti peggio di un’epidemia di lingua blu, la famigerata febbre dei ruminanti che l’anno scorso si è portata via novantamila ovini, un’ecatombe che in confronto il Silenzio degli Innocenti è una favoletta.
Emilio e Franca hanno quattro figli, uno dei quali è stato costretto a trovare fortuna e lavoro in Spagna, facendo il giardiniere tra Barcellona e Siviglia. Gli altri sono a casa e insieme al padre, nel 2005, coi morsi della crisi che si facevano già duramente sentire, hanno avuto un’idea che ha sposato un mestiere antico col mondo globalizzato. Un’adozione a distanza delle pecore tramite un sito internet, in cui si trovano foto, informazioni e la storia di una famiglia che grazie alla rete, forse, non ha dovuto chiudere la stalla e buttarsi in chissà quale impresa disperata. In cambio di una cifra «rateizzabile», chi vuole può mettere il proprio nome sul collare del proprio quadrupede, con tanto di carta d’identità personalizzata, e ricevere una ventina di chili di genuino formaggio sardo. Oppure, a piacere, l’equivalente in prodotti tipici della tradizione regionale. L’impresa familiare che ha anche un marchio, Sardinia Farm, è andata bene fino al 2008, spiega Emilio, poi è un po’ calata «anche per colpa della crisi che colpisce le persone», ma tutt’ora nel suo gregge ci sono diverse decine di pecore che hanno un proprietario «virtuale» oltre lo schermo del computer.
C’è chi trasforma il proprio mestiere, come Angelo e Vincenzo Fornaro, padre e figlio che tengono le radici nella terra ma ricominciano coltivando canapa, dopo che la diossina di Taranto ha devastato le loro stalle e la loro azienda. E c’è chi, come Emilio, continua ad alzarsi alle quattro di mattina per governare le pecore, ogni santo giorno, anzi notte, da quando era un bambino: «Onestamente non mi ricordo l’ultima volta che mi sono svegliato di mattina col sole, forse non mi è mai nemmeno capitato in tutta la vita». Nel suo caso, non sono i veleni la minaccia che pende sopra ai suoi animali, ma la povertà che ha aggredito il suo lavoro e l’intera economia regionale: «Nel 1983 un litro di latte costava 1.390 lire, oggi vale 80 centesimi, e deve anche essere di una certa qualità perché fanno controlli severi: come si fa a campare così? Eravamo 1100 allevatori, prima, ora arriviamo a 650 ma siamo condannati a sparire, tra delinquenza e mal governo. È la storia dei grandi che vogliono far morire i piccoli».
Emilio ha una vita che pare presa da Novecento di Bertolucci. Terzogenito di cinque tra fratelli e sorelle, è rimasto orfano di madre a 7 anni. Ha quindi vissuto con una vicina di casa, quando suo padre ha sposato un’altra donna, mettendo insieme altri dieci figli. Appena finite le scuole dell’obbligo, ha cominciato ad occuparsi delle pecore e a imparare il mestiere di servo-pastore che poi ha fatto fino a 39 anni. Come suo padre, come suo nonno, come tutti da quelle parti, «perché per noi poveri era così, non c’era altro e tuttora non c’è». Governare, cioè, il gregge del padrone, da gennaio a dicembre, con la pioggia e col sole, al gelo o nella canicola. «Sempre fermi là, con le pecore, come un cane alla catena». Otto mesi di pascoli, stalle, prati, staccionate, mungiture, tosature e giacigli non proprio al lattice, ma certo non meno confortevoli, perché alla fine di una giornata iniziata alle quattro uno dormirebbe anche sui sassi. Tre mesi a casa, da novembre a febbraio, quando si ricominciava la stagione e si partiva col gregge, «come e peggio che fare il militare, perché non si tornava a casa mai prima dell’inverno, non si poteva lasciare le pecore nemmeno un momento, all’epoca valevano tanto e c’era sempre il pericolo che le rubassero, non come adesso che valgono come un cane randagio». Erano tutto, quei placidi ruminanti che valgono ciascuno circa 200 litri di latte all’anno. Una pecora, o una mucca, erano il pane assicurato per la famiglia. Infatti le contavano di continuo, certo non solo per prendere sonno, ripassandole quasi a memoria: «Guai se ne mancava una, il padrone ce la faceva pagare cara». Adesso, per dire, ora che non le vogliono più nemmeno i ladri e i lupi sono estinti, «in Sardegna poi non ci sono mai stati, al massimo qualche volpe», Emilio non sa nemmeno quante ne ha: «Dovrebbero essere 114, o 115. Comunque quando le metto alla mungitrice, che ne fa dodici per volta, alla fine me ne accorgo se ne manca qualcuna». Già, la mungitrice. Insieme alle recinzioni e ai fili spinati intorno ai pascoli non più allo stato brado, per Emilio, sono le innovazioni che hanno distrutto tutto, togliendo di mezzo i pastori e la loro libertà. I conti si fanno in fretta: «All’inizio, da servo-pastore, prendevo 10mila lire. Sono arrivato ad uno stipendio di 600mila lire al mese che ci permetteva di vivere dignitosamente. Adesso guadagno 16mila euro l’anno, ma la metà se la prendono loro. Mettendoci anche la macellazione, diciamo che il netto arriva a 10mila euro: come facciamo a camparci, io e la mia famiglia?».
Emilio è consapevole di essere uno degli ultimi samurai, o uno degli ultimi giapponesi nella giungla. «Non penso proprio che i miei figli continueranno questo mestiere, ormai le pecore non interessano più. Ora la gente si occupa di cose che rendono soldi» sospira, un po’ sibillino. Poi aggiunge: «Siamo corrotti, tutti, anche in paesini come questo». Cioè Gergei, nel cuore del Sarcidano, a circa 60 chilometri da Cagliari. Lui che è nato in un altro piccolo paese, Nuragus, e che avrebbe continuato a fare il servo-pastore, se il suo datore di lavoro non fosse morto. Ora invece quasi maledice quando porta alla macellazione i capi più anziani, tra 7 e 10 anni di vita, prendendo 20 euro puliti per una pecora di 20 chili «che poi loro al supermercato rivendono a 80 euro». Per non parlare della tosatura che si fa una volta all’anno, tra maggio e giugno, all’inizio dell’estate, e una volta un chilo di lana valeva anche 1300 lire. «Ora ci danno 35 centesimi, vuol dire circa 50 centesimi per ogni pecora. Il ricavato non basta nemmeno per pagarci le birre che dopo ci beviamo tra di noi, per la sete e la fatica». Così, alla fine, sono scivolati via i suoi 48 anni da pastore, ora che è a quota 62, ma la grinta è sempre quella. Non ha nemmeno più bisogno di un cane, perché per radunare le pecore ormai gli basta un fischio da lontano. «Capiscono tutto, si accorgono perfino di mia moglie quando arriva in macchina: riconoscono il motore» racconta, come se fossero cani invece di pecore. Il gregge 2.0 di Emilio Concas e famiglia.