Marco Rossari, Corriere della Sera - La Lettura 6/4/2014, 6 aprile 2014
SCRIVE MEGLIO CHI SCRIVE SOBRIO
In una delle sue più divertenti poesie Charles Bukowski, nume tutelare di ogni santo bevitore che abbia provato a misurarsi con la pagina, spiattella una serie di raccomandazioni su come diventare un grande scrittore e, tra le altre cose, invita a trincare birra. Moltissima birra. Detto fatto, a ogni ristampa una schiera di aspiranti poeti, dopo essersi scolata la suddetta silloge e avere ignorato l’esortazione del maestro a sorbirsi anche qualche riga almeno di Dostoevskij o del norvegese Knut Hamsun, decide che una doppio malto possa essere il primo gradino per trovare l’ispirazione. Problema: si comincia così e si finisce nel tunnel dell’autopubblicazione (per non parlare della pancia gonfia).
Forse l’ubriacone e lo scrittore hanno una sola cosa in comune: l’esagerazione. Il primo è incline a deformare senza remore e il secondo ammanta la bevuta di connotazioni leggendarie. Non a caso un’autorità in entrambi i campi come Dylan Thomas dopo la sua inconsapevole ultima serata di bisboccia sul pianeta si vantò di avere bevuto diciotto whisky. Post mortem, il barista lo smentì riducendoli a otto.
Forzature a parte, gli elogi dell’alcol come fermento creativo non si contano: da Lorenzo Da Ponte («viva il buon vino/ sostegno e gloria dell’umanità») a F. Scott Fitzgerald («Il troppo stroppia, ma troppo champagne è il giusto»), passando per l’immancabile Baudelaire («Inebriatevi senza tregua: di vino, di poesia o di virtù»), l’equivalenza tra ebbrezza e inventiva è diventata un luogo comune, pericoloso ancora più per le lettere che per il fegato.
Ma da dove nasce questo fraintendimento? Tutta colpa di Archiloco, quando scrisse: «So intonare il ditirambo, il bel canto di Dioniso mio signore, quando sono folgorato nel cuore dal vino». Da lì un equivoco duro a morire per cui dove mette radici la vigna, alligna anche quella forma di energia visionaria tanto facile da scambiare per genio. Già di per sé l’idea animista del vino — l’alcol che ti possiede e che ti regala visioni — è una terribile sconfitta dell’immaginazione. Quando Dustin Hoffman arrivò sul set del Maratoneta dopo una nottata passata in bianco al fine di sembrare stremato, Laurence Olivier perfidamente gli suggerì: «Perché non provi a recitare?». Allo stesso modo, «Perché non provi a scrivere?» dovrebbe essere la dritta più corretta da rivolgere a un AAA, aspirante autore alcolista: per parafrasare un verso di John Lennon, la scrittura è quella cosa che ti capita mentre stai scrivendo, non certo mentre improvvisi una posa maudit. E se la birra, sempre stando alla poesia di Bukowski, «è un’amante fedele», non sempre lo è la scrittura.
Allora la domanda da porsi non dovrebbe essere «Perché gli scrittori bevono?», ma perché lo fanno gli esseri umani, tra i quali — con qualche eccezione — anch’essi andranno annoverati. Anzi, un manifesto che volesse ammonire sui danni del bere, invece di raffigurare scene di degrado urbano con il protagonista dell’exemplum ridotto a uno straccione, dovrebbe più opportunamente effigiare un tizio imbambolato che dopo i Negroni di troppo si sforza di spremere qualche parola.
Con l’alcol in corpo è facile immaginare tutto il romanzo alla Jack Kerouac che si srotolerà ai nostri piedi, la mattina dopo resta solo il mal di testa. Non a caso dopo i giri di bevute, Sulla strada ebbe parecchi giri di bozze. Ma soprattutto: esiste un alibi più consolatorio di quello che presuppone ogni personalità incline alle dipendenze come creativa, estrosa, sregolata? Non bevi perché sei depresso, allegro, fragile, nevrotico, annoiato. No, perché sei uno scrittore. Siamo ancora all’antica idea secondo la quale solo l’ostrica malata genera la perla. E invece, com’è ovvio, la perla può spuntare ovunque. Ad esempio da un grigio assicuratore di nome Franz Kafka. Oppure da una donnina il cui uso dell’alcol non andava oltre l’utilità di una similitudine, come nella lettera in cui Emily Dickinson raccontava di avere gli occhi «del colore dello sherry che l’ospite lascia in fondo al bicchiere».
Spesso si considerano gli eccessi come una caratteristica che isola l’artista dal consorzio umano, mentre al contrario — come l’amore, il lavoro, il sesso — dovrebbe affratellarlo ai propri simili. Certo, la letteratura pullula di grandi scrittori beoni, ma ce ne sono anche di astemi, solo fanno meno notizia. Inoltre se riviviamo un barlume di quella festa mobile che fu Parigi, lo dobbiamo più al talento e alla costanza (ispirazione e traspirazione, regola aurea) di Ernest Hemingway che al pernod: intorno ai tavolini del Café Select, deambulavano tante altre comparse sprovviste di stile, ma con il bicchiere pieno.
Bisognerà farsene una ragione. Gli scrittori non bevono troppo: riferiscono, nei casi migliori, la totalità delle esperienze umane e tra queste anche l’abuso d’alcol. Ne ridiamo per esorcizzare, ripetendo a pappagallo battute sagaci estrapolate dagli scritti di Dorothy Parker. Altre volte, se ripensiamo alle ultime parole di Luciano Bianciardi («Sopportatemi — disse agli amici — duro ancora poco»), ci restiamo male.
Ma il cliché restituisce solo il retrogusto amaro di una frase ripetuta così tante volte da diventare vacua. Anzi, il luogo comune trasforma la lotta strenua condotta dai Malcolm Lowry e dai Raymond Carver in una macchietta, quella dello scrittore tormentato, delegato a farsi carico dei nostri mali grazie a litri di whisky e a qualche poesia. Ben pochi raccontano di quanto una dipendenza possa minare alla base la fiducia in se stessi e il lavoro — né più né meno intenso di qualsiasi altro — che sta dietro a un romanzo. No, il vate scola il cicchetto e risuona come la cetra al vento, mica come i travet metropolitani, affannati da mille scadenze.
Anche per questo lo stereotipo è sbagliato, perché degrada a sublime fervore un mestiere come un altro. Niente di più nocivo, sia per gli aspiranti autori che per la società in generale, tentata di isolare la figura dello scrittore in una torre d’avorio e alcol, facile bersaglio di scherno mascherato da rispetto.
Senza arrivare al disdegno di Nabokov («Non mi sono mai ubriacato in vita mia» si vantava, due volte snob: come scrittore e come russo), non è difficile immaginare che le pagine migliori di capolavori macerati nel liquore come Sotto il vulcano o Vuoi star zitta per favore? siano state buttate giù dopo avere smaltito la sbornia. Non è solo un omaggio al motto hemingwayano («Scrivi da ubriaco, correggi da sobrio»), è proprio un avvertimento contro la consequenzialità tra le due cose.
E se è vero che l’alcol a volte schiude universi di meravigliosa abiezione, in grado di aprire prospettive nuove sul mondo e sulla vita, è anche vero che non aiuterà mai a trascriverle. Per tornare agli antichi, già Omero invitava a guardarsi dal «vino folle che fa cantare anche l’uomo più saggio, e lo fa ridere sguaiatamente e lo costringe a danzare, e tira fuori parola, che sta meglio non detta». Sul riso e sulla danza, non sarei così severo. Sulla parola, mi fiderei del bardo.