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 2014  aprile 06 Domenica calendario

LETTERATURA E PSICOSI IO, DROGATO DI EGO-SURFING


Come molti scrittori che hanno esordito in questo primo scorcio di millennio, anch’io, più o meno l’anno dopo il mio esordio, soffrii di ego-surfing: ovvero, della malattia spirituale che ti spinge a monitorare ossessivamente su Google lo stato della tua reputazione. Una pratica che può diventare compulsiva, fino a degenerare in dipendenza e malattia.
È passato parecchio tempo da allora. E, per dirla con il gergo non privo di scaramanzie dell’ex tossico, ormai sono pulito. Pulito nella prassi, ma, da bravo ex tossico, ancora emotivamente implicato.
Tremo all’idea di quanto nel frattempo la diffusione dei social abbia reso micidiale questo tipo di dipendenza. Un amico mi raccontava del noto giornalista che spesso si esibisce in tv, il quale, dopo ogni performance, conta i tweet che gli sono stati dedicati, senza neppure leggerli. Se il numero non supera quelli della volta precedente entra in uno stato di mestizia e paranoia. Per non dire dello scrittore, di cui si parla molto nel mondo editoriale, che, sotto mentite spoglie, riempie il web di peana dei suoi romanzi e di indignate stroncature dei libri della concorrenza. Tutto questo è patetico, ma così umanamente comprensibile. Schopenhauer soffriva molto all’idea che le lezioni dei suoi colleghi, al contrario delle sue, fossero entusiasticamente frequentate. Il povero Baudelaire andò a Bruxelles a cercare un pubblico e un po’ di fortuna, neanche a dirlo non trovando né l’uno né l’altra.
Era la primavera del 2006 quando presi atto che qualcosa dentro di me si stava squagliando. Dopo le prime settimane, in cui mi ero limitato a cercare sul web commenti positivi sul mio romanzo, l’ossessione aveva preso una nuova forma che non stento a definire dostoevskijana. Ormai i giudizi lusinghieri non mi interessavano più: ero avido di insulti, improperi, sarcasmi capziosi e gratuiti; ero in cerca di piccoli forum dedicati alla mia insulsaggine. E quando li scovavo, mi lasciavo andare a sentimenti pericolosi, in bilico tra voluttà e disperazione. Ansioso, ne parlai al mio analista. Il quale si mostrò tanto preoccupato quanto sollecito. Stilò un programma di rieducazione, che andava dal divieto di tenere acceso il modem durante il giorno, all’obbligo di fare una passeggiata ogni volta che sentivo l’esigenza di colmare, con contumelie e insulti, il mio vuoto interiore. Fu così che intrapresi un cammino di disintossicazione. Mi immaginavo in un gruppo di sostegno composto da autori esordienti affetti dalla stessa sindrome: «Buonasera, mi chiamo Alessandro Piperno, sono un ego-surfer...». E loro tutti in coro: «Buonasera, Alessandro!». Oggi posso dire che il programma rieducativo non avrebbe funzionato se proprio in quei giorni, durante un Salone del libro, non mi fossi imbattuto in uno dei miei più irriducibili detrattori telematici. Fu un amico editore a rivelarmi che dietro le occhialute fattezze del tizio in seconda fila si nascondeva il blogger per il quale, a giudicare dalla frequenza dei suoi interventi, avevo rappresentato un’ossessione non troppo diversa da quella che gli ex nazisti fuggiaschi avevano rappresentato per Simon Wiesenthal. Mi bastò guardarlo — soprattutto le mani magre e nervose — per provare per lui lo strano tipo di pietà che di solito riservo a me stesso. E intanto non smettevo di ripetermi: «Per questo individuo tu sei un verme, un impostore, un miracolato. Be’, almeno su questo la pensate allo stesso modo. E poi guardalo, è un tale infelice».
Il metadone chiamato Virginia Woolf
Sul piano intellettuale, invece, trovai un divertito sollievo nel diario di Virginia Woolf. Quando lo leggi ti viene da pensare che l’intera vita di Virginia sia trascorsa alla ricerca di conferme e consensi («lodi», le chiamava lei). Leggendolo ti dici che la vanità è per lo scrittore ciò che l’avidità è per il capitalista: una deformazione professionale. Del resto, si tratta di una Woolf, se possibile, ancor più delicata e fragile di quella dei romanzi. È spiritosa, straordinariamente lucida in merito alle proprie debolezze. Mentre scrive le capita di sfottere la veneranda Virginia che tra vent’anni rileggerà questi appunti. Ma è anche umbratile, ciclotimica, in balia del vento. A un certo punto si chiede perché la vita sia «simile a una striscia di marciapiede che costeggia un abisso».
Ebbene, la scrittura è il solo argine che la trattenga dal gettarsi in quel baratro. Il resto è stato abolito. Per questo si sente alla mercé dei lettori: «La verità è che scrivere è il piacere profondo, essere letti quello superficiale». «Senza lodi mi è difficile cominciare a scrivere la mattina». Leonard, il marito, così come i suoi geniali amici (Strachey, Forster, Fry) non sono altro che specchi: sembrano esistere allo scopo di rassicurarla sulla qualità dei suoi libri, o per gettarla nella disperazione con qualche commento aspro, o comunque non abbastanza entusiasta. Del resto, Virginia è ossessionata anche dai tiepidi giudizi dei recensori: «A che serve dirci indifferenti alle recensioni quando una vera lode, anche se mischiata a biasimo, ci dà trasalimenti tali che, invece di sentirsi inariditi, ci si sente, al contrario, inondati di idee?». È parecchio attenta alle vendite (non sempre entusiasmanti) dei suoi libri. Si bea di introiti insperati: «Ho guadagnato circa 3.020 sterline, lo stipendio di un impiegato statale». Ma sopratutto si tormenta chiedendosi quale sia il suo posto nella letteratura contemporanea, o, addirittura, nella storia della letteratura inglese. Talvolta si compiace della propria naturalezza, altre volte è felice della propria ostinazione. Si sente una lettrice infallibile e una scrittrice fallita. Ha un problema con il realismo. La devozione per Tolstoj e per la Austen la spinge a chiedersi se la via, da lei intrapresa, per rinnovare la narrativa, non sia un vicolo cieco: quello che scrive è troppo rarefatto e disincarnato. Il pubblico fa bene a ritrarsene con fastidio. La critica a condannarlo.
La telefonata di un’amica
È difficile dare torto a Auden che, a proposito di questo formidabile diario, scrisse: «Non ho mai letto un libro che trasmetta meglio l’idea di com’è fatta la vita di uno scrittore». Le montagne russe emotive, l’alternanza tra alti e bassi, i giorni profumati di primavera e le burrasche invernali. Non è forse questo ciò che rende un inferno la vita di chi scrive? Il guaio è che il solo giudizio che t’interessa è quello dell’ultimo lettore. Non del lettore migliore. Non del lettore in buonafede, o con il quale condividi gusti o ideali estetici. Non del lettore intransigente e sofisticato. Il giudizio più autorevole resta quello del lettore che ti ha letto per ultimo. Poniamo che, avendo appena pubblicato un libro, tu abbia fatto incetta di giudizi lusinghieri da parte di una ventina di lettori che godono della tua fiducia. Te ne stai lì che ti pasci nell’illusione di aver scritto un buon libro. E chi se ne importa di tutto il resto. È allora che il telefono squilla. Un numero sconosciuto. Hai un tale debito con il mondo che rispondi fiducioso. Chissà che non siano altri croccanti complimenti a buon mercato. Ma pensa un po’, una vecchia amica dei tempi del liceo. Una gran simpaticona. Voleva sentirti. Parlate del più e del meno. Alla fine della telefonata, proprio un secondo prima di attaccare, ti dice: «A proposito, ieri sera ho letto il tuo nuovo libro. Perdonami se te lo dico, ma l’ho trovato decisamente meno buono dei tuoi precedenti». Ecco, basta questo commento, ispirato da chissà quale oscura malevolenza, per rovinarti la festa. D’un tratto il sospetto che il tuo libro sia la cosa più mediocre che sia mai stata scritta ti invade come un virus maligno e immedicabile. Avvampi all’immagine di qualcun’altro intento nella lettura di questa schifezza. Sei tentato di chiamare l’editore e chiedergli solennemente di ritirare tutte le copie in circolazione...
Che ne è stato dei giudizi dei venti lettori entusiasti che fino a un attimo fa ti colmavano fino alla sazietà? Scomparsi. Come non fossero mai esistiti. E tutto per le parole di un’amica che non sentivi da dieci anni, e che, a pensarci bene, ti è sempre stata sulle palle. È tempo di mobilitare la grandiosa macchina autoconsolatoria. Ti dici: ho fatto del mio meglio, chi se ne importa degli altri? Io scrivo per me stesso. Dopotutto è quello che mi piace fare. E in fondo non si può mica piacere a tutti, e bla bla bla...
Il tempo non insegna niente
Virginia Woolf alla fine ce la fece: diventò la scrittrice eminente che aveva sempre sognato di essere. E, en passant , risolse i suoi problemi finanziari. Be’, dai, questo avrebbe dovuto placarla, rafforzarla. Questo avrebbe dovuto renderla più sicura di sé, meno suscettibile. Macché. Stando al diario, non cambiò proprio niente.
Nell’ottobre del 1934 sceglie di non leggere Uomini senza arte di Wyndham Lewis, nel terrore di trovare un attacco contro di lei dal quale non potrebbe riaversi. Prova a rifugiarsi in queste parole di Keats: «Elogi e biasimi non hanno che un effetto passeggero sull’uomo che l’amore astratto della bellezza rende critico severo delle sue opere». Ma la verità è che del buonsenso di Keats Virginia non sa che farsene. È disperata, teme di diventare lo zimbello delle nuove generazioni, arriva addirittura a chiedersi che cosa ne sarà dei suoi libri, dopo la morte.
Vedendola così in difficoltà ti viene voglia di afferrarla vigorosamente per il bavero, e apostrofarla a brutto muso: ma insomma, si può sapere che diavolo ti prende? Perché fai così? Che altro vuoi? Perché non ti basta? Dopotutto sei Virginia Woolf. Hai scritto Jacob’s Room , Miss Dalloway , le due serie di The Common Reader ; hai rivoluzionato la narrativa inglese, e non solo quella inglese; hai scritto i saggi di letteratura più intelligenti che un romanziere abbia mai concepito. Ti sei presa persino il lusso di rifiutare una laurea honoris causa . E poi scusa, guardati intorno, hai un marito fantastico, premuroso, un gruppo di amici geniali che ti rispettano e che ti adorano; vivi in una casa confortevole, immersa nella natura più rigogliosa; sei appena tornata da un bel viaggio in Italia; hai il privilegio (precluso alla maggior parte degli scrittori nella storia) di poter vivere di quel che scrivi; si può sapere perché ti lasci scoraggiare e distruggere dalle malignità dell’ultimo recensore? Possibile che vent’anni di carriera non ti abbiano insegnato niente? Possibile che tra te e la fragile ragazzina di un tempo non ci sia alcuna differenza?
È proprio questo il punto: è illusorio pensare che il tempo insegni qualcosa a qualcuno. Certi sentimenti sono immutabili. Le apprensioni per la salute di un figlio ti perseguitano per tutta la vita. Hai un bel prendere le distanze da quello che scrivi. Hai un bel dirti che tutto sommato un libro è un libro. Che non sei il libro che hai scritto, così come un ristoratore non è il ristorante di cui è proprietario. Ma dentro di te sai che le cose stanno diversamente. E che la sola parte di te che ti interessa realmente è quella che hai provato a infilare nel libro, nel tuo libro. E per quanto strano possa sembrare è proprio in quel pronome — «tuo» — che trovi un po’ di refrigerio e di consolazione. Il tuo lavoro. Il tuo libro. Forse non è un granché. Di certo non è all’altezza dei libri che ami. E ciò non di meno è tuo . Sei tu che lo hai scritto, con che infinita pazienza, giorno per giorno. Ti ha accompagnato per anni, ti ha fatto disperare; mentre lo scrivevi, ti ha dato anche qualche soddisfazione. Non sarà il libro più originale del mondo, ma non è neppure il più ordinario; forse verrà beffeggiato, ignorato, dimenticato, e tuttavia nessuno potrà negare che esso contiene tutta la tua abnegazione, e tutto il tuo amore per la forma. Tu sai che è stato scritto in buonafede, senza scorciatoie.
Il resto è davvero così importante?