Alessandro Beretta, Corriere della Sera - La Lettura 6/4/2014, 6 aprile 2014
LA SBRONZA VIGILE CHE PUÒ ISPIRARE
Fernanda Pivano ricordava il canone americano Cinque Nobel (su otto) erano alcolizzati E oggi la narrativa celebra le gradazioni alte Miscelare letteratura e alcol, come in un buon drink, è un gioco di ingredienti e parti. Peccato non esista un ricettario certo, né un vero bancone di prova: rimangono le opere e le biografie degli autori. La parte politically correct di noi dice che nelle prime è entrato lo slancio creativo acceso dall’alcol, nelle seconde, spesso, il boomerang di una dipendenza autodistruttiva. Peccato, certo, ma la parte realistica risponde: «I libri sono rimasti e, andata com’è andata, sono ottimi». Si brinda ad memoriam e si procede a scrivere bevendo.
Che l’alleanza alcol-letteratura dia fantastici risultati è provato nella storia letteraria, sia dalle opere sia dagli innumerevoli aneddoti che ha generato — spesso epici come i libri. Prendete James Joyce ed Ernest Hemingway: si narra che negli anni Venti, quando bevevano insieme girando i café di Parigi, se l’autore dell’Ulisse scatenava una rissa con qualcuno si faceva scudo del giovane Ernest gridando: «Veditela tu con lui, Hemingway! È tuo!». Sarà vero? Certo è che finì il 3 luglio 1961 nel coccodrillo del «New York Times» per Papa Hem, autore, tra gli altri, di Di là dal fiume e tra gli alberi , romanzo di cui disse: «Il libro mi è arrivato come una specie di visione all’Harry’s Bar di Venezia». I due, comunque, nonostante i 17 anni di differenza erano ben convinti che bere aiutasse a scrivere: non ci si può certo lamentare dei risultati e, guardando gli stili opposti, temere che l’alcol in letteratura produca omologazione.
Anzi, la miscela continua a dare frutti, tanto che un sommelier letterario dell’argomento, in tempi recenti, può fare un tour di titoli dai sapori diversi per gustarsi i cocktail migliori e per arricchire il mobile bar anni Sessanta in cui ha stipato i libri dedicati al tema. Partendo, ad esempio, da un’icona del binomio letteratura-alcol con la biografia di Charles Bukowski, a vent’anni dalla morte, Tutti dicono che sono un bastardo (Bietti) di Roberto Alfatti Appetiti. Interessante anche nell’analisi del rapporto tra Buk e tanti autori amati e odiati — come quelli di un’altra generazione di bevitori ma non solo, i beat —, l’autore racconta di come Bukowski dichiarò ai tempi di Post Office (Tea), che lo rese noto nel ’71, di lavorare solo con il suo carburante preferito: «Una pinta di whisky e due confezioni da sei di birra tutte le sere mentre scrivevo». Una linea dionisiaca dell’arte spinta da alcolici di largo consumo, ma non si può dire nel suo caso che non abbia funzionato nella narrativa e nell’immaginario.
Altri, invece, sono stati autori di un titolo di culto, come Charles Jackson con Giorni perduti (Nutrimenti), esordio di successo del 1944 che Billy Wilder portò al cinema vincendo quattro Oscar, da poco tornato disponibile a cura di Simone Barillari. Nei cinque giorni a New York in cui si svolge la storia, il protagonista Don Birnam passa il tempo tra alcol, paure per la propria omosessualità e il sogno di sfondare come scrittore. Non ci riesce non perché «il bisogno di bere era diventato urgente come il bisogno di respirare», ma perché è partito da un modello molto alto: di nuovo Joyce, citato nella prima scena con il racconto a tema alcolico Rivalsa tratto da Gente di Dublino , raccolta dove, di quindici storie, ben poche sono sobrie. Vittima dell’emulazione, il protagonista del libro di Jackson.
Come può capitare a tanti aspiranti scrittori, ma il meccanismo ha anche funzionato nella realtà: Arthur Rimbaud, quel magico adolescente che tanto amò l’assenzio a fine Ottocento, è stato il faro della prima fanzine fondata nel ’79 a Barcellona da un 26enne cileno arrivato dal Messico con alle spalle poesie e racconti allora ignoti. Si chiamava Roberto Bolaño. Per quanto siano contrastanti le voci sulle sue dipendenze da alcol e droga, è ragionevole credere che a quell’età fossero ancora in corso e che diverse serie di caña nel Raval abbiano preparato l’ispirazione che ne è seguita.
Comunque, carte alle mano, gli scrittori meglio ispirati dall’alcol nel Novecento erano principalmente americani, con risultati nell’immaginario direttamente proporzionali al loro tasso alcolico. Come notò nel 1994 Fernanda Pivano, astemia e prima traduttrice di Hemingway che le disse «You shouldn’t do that to me, daughter » (Non dovevi farmelo, figlia mia), sul «Corriere della Sera»: «È a dir poco sensazionalistico pensare che degli otto americani insigniti del Premio Nobel cinque erano alcolizzati; conosciamo tutti almeno qualcuna delle avventure di William Faulkner, Ernest Hemingway, Eugene O’Neill, Sinclair Lewis e John Steinbeck». È innegabile ma certo affascinante, e il sensazionalismo ha travolto anche chi non l’ha vinto, come Francis Scott Fitzgerald che alle feste beveva gin artigianale preparato in vasche da bagno, John Cheever, Raymond Carver.
Certo, a ogni generazione la sua dipendenza, anche nell’arte, ma l’alcol ha la storia più lunga e gli effetti poeticamente più alti anche quando non è stato solo fedele compagno nella scrittura, ma centro della storia narrata. Pietra miliare, in questo senso, rimane Sotto il vulcano (Feltrinelli) dell’inglese Malcom Lowry con il console Firmin alle prese con «la sconfinata impazienza, l’incommensurabile nostalgia» del bevitore in un inferno messicano dagli echi danteschi che diventa universale. Il legame tra scrittura letteraria e alcol sta poi in una qualità che hanno in comune: entrambe spingono a trasfigurare la realtà e, allo stesso tempo, sono il mezzo per farlo. È inevitabile, quindi, che per tanti scrittori nasca un’affinità tra ispirazione ed ebbrezza e che si provi a far lievitare una fantasticheria o un pezzo di realtà alla temperatura di 40 gradi alcolici al bancone del proprio personale Bar delle Antille, nome con cui Luciano Bianciardi ribattezzò il milanese Bar Jamaica ne La vita agra (Bompiani).
Una dinamica che si ripete anche nella recente antologia curata dalla scrittrice e bartender Carolina Cutolo Martini Eden (Nutrimenti) in cui sei autori, tra cui Filippo Tuena e Sapo Matteucci, creano racconti di fiction attraversati dal Martini cocktail, o in L’acino fuggente. Sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero (Laterza), esplorazione alcolica del territorio a più bassa gradazione di Luca Ragagnin ed Enrico Remmert. Un tandem di scrittori esperto, quest’ultimo, che ha «vendemmiato» nel 2004 l’antologia cult di autori di ogni tempo e luogo Elogio della sbronza consapevole (Marsilio).
Spinti un po’ nuovi e vecchi libri nel mobile bar, tra una vita di Edgar Allan Poe e i russi Sergej Dovlatov e Venedikt Erofeev adepti della vodka, il sommelier letterario potrà trarre allora le sue conclusioni pensando al wrestling poetico immaginato da Viktor Šklovskij ne Il punteggio d’Amburgo . Qui gli scrittori-combattenti, dopo tanti incontri truccati dai loro impresari, ne fanno uno vero a porte chiuse per «stabilire la classe reale di ciascun lottatore», il loro peso poetico. Contrariamente a ogni pronostico atletico, trionferanno gli scrittori alcolisti e negli spogliatoi non mancherà Truman Capote che usando il soprannome che diede al Martini cocktail dirà: «Abbiamo vinto, andiamo a spararci un paio di pallottole d’argento».