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 2014  aprile 06 Domenica calendario

IL DONO DI UN MAIALE MISE FINE ALLA LITE


«Nulla si vede di giusto o di ingiusto — scriveva Blaise Pascal — che non muti qualità col mutare del clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità». La questione è antica: nonostante la tensione verso l’universale, il diritto e la giurisprudenza sono condizionati dagli usi, dalle abitudini, dalla cultura. Anche oggi, in non poche società, esistono forme di amministrazione della giustizia che non prevedono avvocati, fori e codici scritti. In alcuni territori d’oltremare anche la Francia, considerata Paese «assimilazionista» per eccellenza, che impone una laica neutralità ai cittadini, ammette un diritto consuetudinario a cui sono soggette le popolazioni aborigene. Tale diritto regola la gestione delle terre, ma può anche intervenire in fatti di grave rilevanza penale.
Nel corso delle mie ricerche etnografiche a Futuna (un lembo di Francia e d’Europa situato in Polinesia, a 20 mila chilometri da Parigi), mi sono imbattuto in una vicenda che vide coinvolte due famiglie in un aspro conflitto. Un bambino era stato investito da un’auto e gravemente ferito. Temendo l’avviarsi di una faida, i gendarmi consigliarono alla famiglia del ferito di denunciare il fatto alla giustizia statale, ottenendone un secco rifiuto. Dopo lunghe ed estenuanti trattative, con la mediazione dei capi villaggio, le due famiglie trovarono un accordo per la riconciliazione: il dono di un maiale e di una radice di kava (una sostanza rituale psicoattiva) posero fine allo scontro. Non si tratta di bizzarre curiosità esotiche: un Paese multiculturale come il Canada ha adottato il metodo del cosiddetto sentencing circle , camere di consiglio allargate ai membri del gruppo etnico di appartenenza dell’imputato, chiamate a interagire con i giudici per armonizzare la sanzione con le tradizioni locali.

Un conto, tuttavia, è prendere atto dell’esistenza di forme culturalmente modellate di diritto: questione ben più delicata è chiedersi quanto la cultura di origine di un migrante possa essere invocata come attenuante o, al contrario, aggravante di un delitto. È questa la domanda che sta al centro di un bel libro dei penalisti torinesi Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, Culture alla sbarra (Einaudi), un testo interamente dedicato ai cosiddetti «reati culturalmente motivati». I numerosi esempi riportati pongono con efficacia comunicativa e rigore scientifico la questione del rapporto tra diritto e multiculturalismo.
Singh è un mungitore sikh, originario del Punjab: come molti connazionali si è trasferito da noi e contribuisce, silenziosamente, a riprodurre le «vere» tradizioni alimentari italiane, i formaggi noti in tutto il mondo. Porta una lunga barba e l’immancabile turbante. Un giorno, mentre passeggia per le vie di Cremona, viene fermato dalla polizia, denunciato e condannato per porto abusivo di arma da taglio. Nella cintola infatti tiene il kirpan , un pugnale che simboleggia l’onore, la libertà di spirito e l’ahimsa , la «non violenza». La sua cultura gli impone di portare sempre con sé il kirpan , come se fosse parte del suo corpo, ma la giustizia del Paese ospitante non vuol sentire ragioni (culturali).
I tribunali italiani si sono occupati più volte dell’accattonaggio minorile. In una società che, perlomeno a livello ideologico, protegge e tutela i bambini anche dalle attività lavorative, la presenza di piccoli mendicanti suscita scalpore. Nel caso dei Rom, tenendo conto che l’attività avviene spesso nel contesto di povertà materiale ed emarginazione, un giudice può attenuare le colpe dei genitori per il fatto che il mangel , chiedere elemosina come lavoro, rientra nella tradizione di questi popoli? La legge n. 94 del 2009 punisce chi si avvale di un minore di 14 anni per chiedere l’elemosina: è una legge decisamente contro la cultura.
Il pugnale kirpan e l’elemosina sono questioni non da poco, ma reazioni ancora più forti suscitano i crimini che hanno a che fare con i rapporti di genere e i costumi sessuali. Il caso di Hina Saleem, la ragazza di origini pakistane uccisa a Brescia nel 2006 dal padre perché accusata di tradire con i suoi comportamenti l’«onore» della famiglia (vestiva all’occidentale, lavorava in un bar, beveva alcoolici), ha avuto ampia eco mediatica. In primo grado, il tribunale riconobbe l’esistenza di un «reato culturalmente motivato». I gradi successivi trascurarono i fattori culturali, attribuendo piuttosto all’indole del padre la responsabilità di un crimine compiuto per motivi «futili» e «abbietti». Nello stesso 2006, un tribunale tedesco riconosceva a Maurizio Pusceddu, originario di Cagliari, autore di una efferata aggressione ai danni della fidanzata lituana, una riduzione di pena in quanto il suo crimine avrebbe portato «particolari impronte culturali» tipiche della Sardegna, dove «la concezione del ruolo della donna è tale da comportare, se non una scusante per la condotta violenta, una giustificazione culturale che deve condurre a una riduzione di pena». La sentenza fu accolta in Italia con sdegno.
Come riconoscere un reato «culturalmente motivato»? Cosa distingue una cultural sentence da altre motivazioni? Gianaria e Mittone si chiedono, in primo luogo e molto opportunamente, che cosa intendiamo con il concetto di «cultura». Il giudice e l’antropologo finiscono inevitabilmente per incontrarsi su questo terreno. «Le culture — osservano — non sono entità circoscritte, ritagliabili come figurine. I loro confini sono vischiosi, spesso arbitrari. Esse si mescolano, si ibridano, dando vita a forme di meticciato che il tempo contribuisce a far evolvere». Occorre allora recidere ogni legame meccanico tra cultura e delitto, introducendo variabili come la durata dell’esperienza migratoria, la qualità dell’integrazione, le chance che la società di accoglienza offre al migrante di diventare consapevole delle caratteristiche della cultura che lo ospita.

Come osserva l’antropologa Paola Sacchi, che ha dedicato un articolo alla vicenda di Hina Saleem («Il peso della cultura in un tribunale italiano», nel volume Antropologia giuridica di Antonio de Lauri, Mondadori), occorre prestare molta attenzione all’interazione tra il migrante e la società di approdo. Le condizioni dei migranti, la loro marginalità o integrazione possono attenuare o accentuare tratti culturali in contrasto con le norme locali. Valutare quanto un comportamento sia condiviso nella comunità di origine — davvero gli uomini pakistani approvano la condotta del padre di Hina? — è un altro modo di riconoscere il carattere culturalmente indotto di crimine. Le furiose reazioni degli italiani e dei sardi alla sentenza Pusceddu mostrarono che il tribunale tedesco aveva applicato uno stereotipo, più che stanare una motivazione culturale.
Anche tenendo conto di queste variabili, il ruolo del giudice non è facile. È meglio in ogni caso, secondo gli autori di Culture alla sbarra , non mettere mano alla legge, proibendo o approvando pratiche che, per lo più, mutano incessantemente, ma affidare alla pratica giurisprudenziale il compito di esprimersi.