Paolo Di Stefano, Corriere della Sera - La Lettura 6/4/2014, 6 aprile 2014
PROCESSO AI GENITORI
Nessuno è perfetto, ma i genitori lo sono ancora meno. Forse per questo sono sempre sotto processo. Osservati speciali prima da se stessi, vittime come sono, spesso, del senso di colpa di non essere all’altezza di un compito ogni giorno più arduo. Poi dalla società, dagli insegnanti, dagli psicologi, dai sociologi che mai come oggi hanno scritto saggi sul tramonto dei padri e sulle «madri assassine», sulla famiglia troppo protettiva e troppo asfissiante, troppo permissiva o troppo distratta. Sempre troppo qualcosa... Non è raro infatti che la famiglia finisca nell’occhio della giustizia. Qualche anno fa a Viterbo un padre e una madre furono chiamati in tribunale per rendere conto delle assenze ingiustificate (50 giorni consecutivi) del figlio sedicenne: «Inosservanza dell’obbligo d’istruzione elementare dei minori». Sacrosanto punire colui il quale — per dirla in burocratese — «rivestito di autorità o incaricato della vigilanza» di un minorenne, venga meno al dovere di mandarlo a scuola. Pochi ricorderanno il caso di quella madre e di quei nonni della provincia di Ferrara denunciati per «troppo amore e troppa protezione»: formula eufemistica e comunque discutibile, se è vero che per «tutelarlo» vietavano al ragazzino dodicenne di coltivare amicizie, di frequentare i compagni fuori dalla scuola, persino di partecipare alle lezioni di ginnastica per evitare il pericolo di cadute e incidenti.
Casi estremi, per non dire maniaco-ossessivi, che meritano indubbiamente l’attenzione prima dei servizi sociali, poi eventualmente della magistratura. A proposito di triangolazione scolastica, qualche giorno fa la Cassazione ha deliberato che un’ingiuria all’insegnante potrebbe trascinare il genitore assatanato di giustizia (per il figlio sistematicamente sottovalutato) diritto in un’aula giudiziaria se non in cella: non basta una multa, visto che il prof è a tutti gli effetti un «pubblico ufficiale». Per non dire della delicatissima questione degli abusi sessuali, che prevede oltre all’ovvia condanna del genitore responsabile anche la colpevolezza del partner qualora fosse considerato «omissivo», cioè se non interviene a denunciare la violenza. Piacciano o non piacciano, sono tutte situazioni impensabili fino a un paio di decenni fa.
L’anno scorso a Genova saltò fuori una sentenza d’appello che fece parecchio clamore perché capovolgeva il celebre detto biblico per cui «le colpe dei padri ricadono sui figli». La diciannovenne cantante metal Cristina Balzano e suo fratello Andrea, 16 anni, erano stati processati per aver accoltellato, nel 2008, un loro amico, Alessandro, provocandogli lesioni definitive. Tentato omicidio aggravato da premeditazione e futili motivi: una delle ragioni dell’acca-nimento sarebbe stata la brutta abitudine di Alessandro di allungare le mani sulla ragazza. La quale si prese 6 anni, mentre il fratello fu «messo in prova» in una comunità minorile. Ma non era tutto: in aggiunta il giudice impose ai genitori, due operai, di versare più di 800 mila euro alla vittima, in quanto considerati responsabili della cattiva crescita dei figli, specie del minore ovviamente: «Inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata», «oggettive carenze nell’attività educativa e/o quanto meno nell’attento monitoraggio della stessa in presenza di palesi deficit di maturità nello sviluppo...».
Insomma, le colpe dei figli ricadono sui padri e sulle madri, se i loro ragazzi si rivelano «immaturi sul piano cognitivo e sul piano affettivo», se la loro personalità — così è stata definita quella del giovane Andrea — si mostra «disarmonica, con tratti narcisistici, antisociali, istrionici». Qualcosa che somiglia alla cosiddetta «Legge Cenerentola», che secondo la campagna di Action for Children , appoggiata nel Regno Unito non solo da gruppi conservatori, vorrebbe introdurre nel novero delle colpe punibili il concetto, alquanto scivoloso, di «maltrattamento emotivo»: non per «criminalizzare i genitori», dicono i promotori, ma «un comportamento» (distinguo che non basta a diradare la nebbia sull’iniziativa).
A infoltire la casistica sull’argomento, è arrivata, poche settimane fa, una notizia da Lincoln Park, una cittadina del New Jersey: «Da fuori — ha scritto Massimo Gaggi sul “Corriere” — una bella famiglia, tranquilla e benestante, i Canning. Genitori e tre figlie di 13, 15 e 18 anni. Nel cuore della classica America suburbana e affluente: casa coloniale di legno con un grande giardino, due cani, le vacanze alle Bahamas. Le ragazze che frequentano ottime scuole private. Ottime e costose». Dunque? Dunque un bel giorno la diciottenne Rachel va via di casa e i genitori smettono di pagarle la scuola. Lei li denuncia, rimproverando loro di essere egoisti («hanno molti soldi e li spendono per cose inutili») e di negarle il diritto allo studio. Chiede che le vengano versati 650 euro mensili per pagare la retta della Morris Catholic High School, ma questa volta il magistrato è dalla parte di papà e mamma: «Questa è materia da consulenti familiari, non da giudici: se ci mettiamo su questa china, di quali denunce dovremo occuparci? Di bambini che pretendono la xBox a 12 anni o l’iPhone a 13?».
Eccoci al punto. Incrociando quest’ultima osservazione con la «Legge Cenerentola», verrà il giorno in cui privare il proprio figlio dell’iPad quando il 90% dei compagni ne dispongono liberamente potrà essere sanzionato come «maltrattamento emotivo»? Perché no. C’era un bel tempo andato in cui i padri (e le madri) avevano sempre ragione, imponevano le loro regole che spesso coincidevano con quelle condivise dalla società. Oggi, al contrario, i genitori vivono in un visibile deficit di autorità, esattamente speculare all’indebolimento delle istituzioni scolastiche e alla deregulation di modelli esterni, sociali, politici, culturali e via dicendo. Sono discorsi piuttosto scontati, ma non abbastanza se la legge tende a caricare sempre più sulle spalle dei genitori responsabilità che andrebbero almeno equamente divise tra le mille parti in causa.
Prendiamo il caso di Genova: è possibile oggi, nella instabilità crescente dei rapporti familiari, ritenere che mamma e papà siano l’origine unica e diretta delle «deviazioni» sociali di un figlio sedicenne (sì, sedicenne)? C’è uno stretto rapporto di causa-effetto tra le buone o cattive intenzioni educative e i loro risultati? O ci sono in mezzo innumerevoli variabili che finiscono per interferire oggi più che mai? C’è bisogno di aver letto il solito Zygmunt Bauman per sapere quali e quanti siano i fattori che concorrono alla precarietà collettiva e individuale nella cosiddetta «modernità liquida»?
Essere genitori, diceva il dottor Freud, è un mestiere impossibile. Non è certo mettendo alla sbarra i genitori che la società guadagna cittadini felicemente proiettati verso il futuro: abituando i giovani a impugnare il codice penale per far valere le proprie ragioni o non-ragioni di figli. È lecito chiedersi se sia davvero così che si recupera, all’interno della famiglia, quel minimo sufficiente di equilibrio nel rapporto genitori-figli che è, nel migliore dei casi, un «amore imperfetto», come dice il titolo di un libro della psicologa Grazia Attili.
In questi anni abbiamo sentito parlare di piccoli tiranni che impongono i propri capricci a genitori troppo deboli. Lo dice bene il pediatra francese Aldo Naouri: i genitori sono diventati deboli a furia di ritenere troppo deboli i propri figli di fronte alle minacce del mondo: omicidi, pedofilia, rapimenti, droga... Ne La vita è altrove, Milan Kundera mette in scena un giovane, Jaromil, alle prese con una madre possessiva, che passa le notti ad aspettarlo andando su e giù nervosamente per le stanze, e quando torna lo rimprovera, lo colpevolizza: «Ma ti rendi conto di quanta paura ho avuto? Dove sei stato? Non hai proprio nessun riguardo per me!». Non c’è peggior «maltrattamento emotivo»: e se Jaromil, invece di diventare un poeta, avesse impugnato un’arma, scegliendo un’altra vita parallela, avremmo dovuto mettere alle catene sua madre?
Per tanto così, non c’è genitore che non meriti il carcere. Per non parlare dell’esercito degli irresponsabili quaranta-cinquantenni cui piace travestirsi da adolescenti — più adolescenti dei propri figli —, afflitti da quella che Francesco Cataluccio, in Immaturità , un saggio che torna in libreria in questi giorni, segnala come «la malattia del nostro tempo»: «Sono scomparsi — scrive — come le mezze stagioni e le lucciole, gli adulti. In giro si vedono quasi soltanto bambini e vecchi. E per di più i piccoli si comportano come grandi (...) e i vecchi come bambini». Siamo esseri imperfetti: «papi» sciapi, madri totali, nere, vittime, narcisiste, isteriche, depresse, assenti, violente (la psicoterapeuta Marina Valcarenghi ne elenca una decina di tipi e tipacci). E i figli? Ancora peggio (o meglio): figli «sdraiati» (in gabbia anche tu, Michele Serra, non pensare di cavartela!) e figli fin troppo eretti, figli viziati e despoti, per non dire dei figli-hikikomori... Di tutto. «I figli oramai vanno dove vogliono, nessuno li può governare», diceva allargando le braccia un vecchio padre di Napoli: era un modo per alleggerirsi del peso di aver tirato su, senza saperlo, un paio di mascalzoni.
Nel gennaio 2002, dopo la denuncia di un astigiano che si era imbattuto in un sito internet con foto di bambini costretti a rapporti sessuali, i carabinieri avviarono un’inchiesta: tra il 10 e l’11 marzo dell’anno seguente furono effettuate perquisizioni ovunque, dalla Sicilia al Piemonte. Tra gli indagati c’era il venticinquenne Marco, di Candelo (Biella), che un martedì all’alba, dopo aver navigato per ore al computer, capì che i carabinieri stavano arrivando da lui e quando sentì suonare il citofono, aprì la finestra e si buttò giù dal secondo piano. Mezz’ora prima sua madre si era svegliata, era andata in camera a pregarlo: «Marco, basta, va’ a letto una buona volta». Quel ragazzo da mesi non vedeva nessuno, pretendeva che i suoi genitori gli portassero in camera il piatto della cena. Sua madre è una brava donna, una sarta dalle mani d’oro. Non capiva perché suo figlio dormisse di giorno e di notte stesse sveglio davanti allo schermo. Quel giorno, aprì la porta della camera di Marco e mi disse in lacrime: «Aveva tutto, in camera sua sembra di essere al cinemascope, la televisione con la parabolica, la radio, il cd, gli altoparlanti, il computer, di tutto di più, sembra una centrale nucleare, e stava chiuso sempre lì. Io gli dicevo: con tutte ’ste cose che tarocchi, va a finire che prima o poi ti mettono in galera. E lui rideva, diceva: ma va’ là, se lo fan tutti…». Come la puniamo, quella madre?