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 2014  aprile 06 Domenica calendario

LA GRANDE VUOTEZZA


Qualche settimana fa mi viene girata una mail che contiene un invito. Caratteri color oro su fondo nero. Una statuetta dell’Oscar, pure color oro. Dice: «Ballo da Oscar. Omaggio a La Grande Bellezza… di Roma . Mercoledì 2 aprile alle ore 20,30. A Palazzo Ferrajoli, Piazza Colonna 355. Serata esclusiva. È di rigore l’abito scuro. Cena buffet». Nel testo di accompagnamento sono spiegati i dettagli: «La serata come di consueto si svolgerà a Palazzo Ferrajoli, oltre alla raffinatissima cena e alla coinvolgente musica di Sandro Tommasi, riserverà delle sorprese uniche ed inimaginabili (con una m sola, ndr )... sono sicura che impazzireste se solo poteste immaginare quello che vi riserverà la Notte degli OSCAR...!!!». Seguono raccomandazioni sui tempi di conferma e infine il prezzo: 70 euro a testa.

Ora, io non ricordo di avere mai speso 70 euro per una cena a buffet, e anche di cene servite al tavolo a questo prezzo ne ho consumate poche in tutta la mia vita — però il richiamo è molto forte, antropologicamente parlando: da una rapida ricerca su internet ho infatti la conferma che l’evento non ha nulla a che fare con Paolo Sorrentino, con Indigo Film o con Medusa, ma insiste piuttosto sull’agonizzante mondanità romana ritratta con pietas magistrale dal regista napoletano. L’organizzatrice, Sara Iannone, già candidata alle elezioni amministrative dello scorso anno per una lista civica pro-Alemanno (Cittadini X Roma, 4,93 per cento, 2 consiglieri comunali eletti ma non lei, vittima di un increscioso papocchio di cui si può avere notizia digitando su Google il suo nome insieme alle parole «polemica», e «Elezioni Roma»), si è semplicemente servita del titolo del film e della statuetta appena vinta per «battere il ferro finché è caldo», diciamo così — e poco importa che, a rigore, si tratti di un ferro altrui. Risulta difficile, del resto, negare ai Troll la propria porzione di onore nel trionfo del Signore degli Anelli — e anche la città di Nashville nel 1976 s’è gloriata del successo del film di Altman che agli occhi del mondo ne faceva strame.
Sicché convinco mia moglie ad accompagnarmi, coinvolgo pure i miei cognati per avere adeguata copertura, e previo bonifico di 280 euro mi procuro la prenotazione. Con quello che si dimostrerà uno scrupolo del tutto infondato, nella prenotazione ho utilizzato un nome falso, e così eccomi qua, Alessandro Sebastiani, alle nove di mercoledì 2 aprile, davanti a Palazzo Ferrajoli, con addosso il vestito del matrimonio, a osservare Demetra Hampton che scende sontuosamente da una carrozza — mandando un segnale contraddittorio, secondo me, cinematograficamente parlando, dato che qui l’omaggio sembrerebbe alla scena iniziale di Reality . Aspettando l’arrivo dei cognati, abbiamo il privilegio di vedere altre carrozze fermarsi davanti al portone del palazzo e bloccare il traffico per scaricare altre celebrities che non riconosco (che siano celebrities lo congetturo per via del fatto che vengono fotografate dai paparazzi), più una vecchia vestita come un Mon Chéri che ispira una compassione invece decisamente felliniana. Il problema è che, per via dell’imbarazzo e della paura di essere scoperti, mia moglie ha un mezzo mancamento, le gira la testa, vuole andare via, e anch’io non è che mi senta proprio bene. Fortuna che arrivano i cognati, belli e sorridenti tutti e due, in taxi come veri aristocratici, e siccome loro non hanno ancora visto nulla, ci serviamo della loro innocenza per farci forza e salire alla festa.
Di aristocratici, dentro, ce ne sono pochi. Non che me ne intenda, ma l’aristocrazia è anche una faccenda di tratti somatici, di portamento, e tra gli invitati che incrociamo non è che questi tratti saltino agli occhi. Sì, c’è il Principe Massimo, col suo profilo greco, del quale si dice che in cinquant’anni di ricevimenti non sia mai stato visto parlare con nessuno; e c’è il Principe Giovannelli, dal carnato cereo e lo sguardo ormai spento; e ci sono altri nobili traballanti, che mio cognato riconosce non so perché — ma il grosso sembra appartenere a quel famigerato generone romano che puoi incontrare in qualunque cena, a Roma, in qualunque casa e in qualunque periodo dell’anno. Cascami di Finmeccanica, Coni, aziende municipalizzate, circoli sportivi. Età media che definirei altina, anche se non mancano giovanotti in smoking che potrebbero ben figurare (e forse figurano) nei club Forza Silvio. Con la consulenza di mia cognata affronto il tema gioielli: nada, a sfavillare sono solo parures lampantemente false (se fossero vere, dice, costerebbero dal mezzo milione in su).
Mio cognato invece mi è prezioso nella duplice veste di chirurgo plastico e collezionista d’arte. Riguardo all’interventistica portata in giro da quasi tutte le signore, il suo occhio esperto produce un’analisi che può essere sintetizzata così: «Eccesso di mammelle, carenza di lifting». Più coinvolgente è per lui la lettura della decadenza di questa storica magione attraverso l’osservazione delle opere che ospita: attorno a qualche capolavoro superstite (marine fiamminghe del Seicento o splendide tele ottocentesche di, secondo lui, così a occhio, Ippolito Caffi), le pareti sono ingombre di una gran quantità di falsi, di rifacimenti e di stampe che servono, mi spiega, a coprire gli aloni lasciati sul muro dagli originali venduti nello stillicidio che ha smantellato la probabilmente portentosa collezione originaria.
Siccome abbiamo fame, ci mettiamo a cercare il tavolo in cui ci hanno sistemati. Conto 14 tavoli da 12 posti ciascuno, il che dà un totale di 168 invitati che appare piuttosto verosimile, data la calca che dobbiamo affrontare. I tavoli sono tutti contrassegnati dalla riproduzione della locandina di un film italiano che ha vinto l’Oscar — il che rimarrà l’unica finezza della serata —, e noi scopriamo di essere stati destinati al tavolo di Ieri, oggi e domani . Scopriamo anche che i commensali che ci sono toccati («Piacere, Sebastiani») sono simpatici e alla mano, anche se lo zelo con cui mia moglie comincia a chiacchierarci mi sembra un po’ imprudente, considerato il malore di poco fa.
Quando ci informano che il buffet è pronto ci fiondiamo nella sala a fianco, solo per ritrovarci, insieme a tutti gli altri, affratellati da una terribile delusione collettiva. La pochezza di questa cena da 70 euro (a proposito, 70 per 168 fa 11.760) è impressionante, così come l’assenza di apparecchiatura ai tavoli (un bicchiere cilindrico a testa, mini-tovaglioli di carta e stop), la fatica erculea necessaria per procurarsi una fetta di formaggio, nonché la transumanza obbligatoria fino alla buvette, in fondo al maniero, per riuscire a metter le mani su una bottiglia di vino bianco. Meglio non infierire con i particolari, sul serio, e rubricare la cena per quello che è — e che poteva essere intuito fin dall’invito: La Grande Sòla. E va bene, penso: è grave, ma dopotutto nel film di Sorrentino si mangia poco, perché mangiare è un’attività ancora abbastanza vitale. Il senso della serata verrà dopo, mi dico — in questo incoraggiato da Sara Iannone in persona che, passando tra i tavoli, e presentandoci uno strano prete che cura contemporaneamente un ospedale infantile a Malindi e un’esposizione di stampe di Monet a Trevignano, ci sprona a trasferirci nella sala rossa per la consegna delle onorificenze e le sorprese hollywoodiane. E vai. Solo che a questo punto succede una cosa spiacevole: mi apparto un momento a fumare in un inaspettato terrazzino da casa di ringhiera milanese che c’è sul retro e vengo sequestrato da un paparazzo che mi attacca un pippone infinito sul fumo, sulle sigarette, sulle sigarette elettroniche e, a sorpresa, grazie a un magistrale apologo che utilizza come punto di ribaltamento, sulla crisi economica. L’apologo è questo: n’amica sua è dipendente da’a Vodafon. Se licenzia e investe ’a liquidazzione in un negozzio de sigarette elettroniche in merciandaising (credo intenda in franchising). Tre mesi e fa er botto. Torna a’a Vodafon e chiede d’esse’ riassunta. Cor cavolo. A da vede ’e fialette che deve ancora smalti’ . E da qui, stravaccato sulla sedia di ferro, con la macchina fotografica a tracolla, fumando una sigaretta dietro l’altra, mi conduce in un’arrembante rappresentazione della recessione economica italiana senza lasciarmi il tempo di trovare una via di fuga. Quando arriva alla percentuale di bollette della monnezza non pagate nel comune dove abita, Serrone, vicino Fiuggi, penso che l’unico modo per schiodarmi da qui sia simulare uno svenimento, ma provvidenzialmente arriva mia moglie e mi porta via, con la benedizione del paparazzo perché ’na moje nun se deve fa’ aspetta’ mai . La guardo ed è terrea, però, ha di nuovo i capogiri, così come terrei, costernati e direi catatonici sono i miei cognati. «Ti sei perso tutto», mi fa, e farfuglia che questo tutto in realtà è stato nulla, cioè la distribuzione da parte di Sara Iannone di un certo numero di statuette degli Oscar comprate dai cinesi (le riconosco, le ho comprate anch’io anni fa per una premiazione del fantacalcio) alle amiche sue. Fine.

Va da sé che quando sono partite le danze a mia moglie è cominciata a girare la testa, ma io non le resto vicino a confortarla, la lascio lì con i cognati, perché se ho imperdonabilmente perso il clou della serata, cioè quel nulla heideggeriano attorno al quale in effetti ruota anche il film di Sorrentino (in questo bisogna riconoscere che la festa è congrua), non posso perdermi anche i trenini che non vanno da nessuna parte. Perciò avanzo nella folla fino alla sala rossa, dove in effetti l’allegra brigata si è messa a ballare, mi appoggio al muro e mi metto a guardare: niente trenini, però — non c’è spazio —, solo smoking che si sformano, cosce che straripano dagli spacchi, teste bianche che dondolano, seni marmorizzati che non dondolano, e mi ritrovo a pensare che Jep Gambardella in questa festa non resterebbe nemmeno cinque minuti, mentre io ci ho portato tre persone innocenti e ci sono rimasto tutta la sera. Una vertigine mi coglie quando il dj lancia il remix di A far l’amore comincia tu , ma il momento insostenibile arriva quando parte quello di Tu vuo’ fa’ l’americano , e tutti s’infiammano, gridano, alzano le braccia, imitando la scena del film. Qui le tempie cominciano a pulsarmi, il respiro si appesantisce, un liquido formicolio sale su dalle gambe e dalle braccia, il suono scompare e la scena diviene muta: ecco, penso, ora svengo davvero. E invece no, succede un’altra cosa: succede che mi tramuto in una polla d’acqua sorgiva, limpida, pura, e impetuosa, che allaga e abbraccia e spazza via tutte le anime morte di questo mondo, e le porta lontano dalla loro dannazione, in mare aperto, nell’Oceano, dando loro la pace che le placherà. Amen.