Pia Pera, Il Sole 24 Ore 6/4/2014, 6 aprile 2014
ALTRO CHE PANCHINA
Michael Jakob ha spogliato la panchina della sua innocenza. Gli oggetti insignificanti, scrive, sono spesso i più avvincenti, per il fatto di significare proprio attraverso la loro manifesta insignificanza. Utilizzata come punto di riposo, sospensione dell’intenzionalità, la panchina è tutto fuorché un innocuo arredo da giardino, dall’influenza tanto più sottile quanto meno le badiamo. Può elevarsi a dispositivo ermeneutico, vero e proprio grimaldello. La sua fortuna sboccia col culto di Rousseau che, il 20 maggio del 1778, si stabilì in Piccardia nella tenuta di Ermenonville, ospite di René de Girardin. Suo fervente ammiratore, da una quindicina d’anni il marchese autore di De la composition des paysages andava realizzando nei territori di sua proprietà, parte agricoli parte paludosi, un progetto paesaggistico ambizioso, con dovizia di fontane, tombe, altari, obelischi eremi e mulini, un Piccolo Parco, un Grande Parco, un Deserto.
Alloggiato provvisoriamente all’ingresso del castello in un padiglione ingentilito da un lindo frutteto, Rousseau non fece in tempo a insediarsi nello chalet in cantiere: il 2 luglio moriva. Due giorni dopo, alla mezzanotte di un sabato, una barchetta lo traghettava attraverso il lago nell’Isola dei Pioppi. Le sue spoglie furono meta di pellegrini anche illustri, da Giuseppe II a Robespierre, né il flusso di visitatori si interruppe dopo che, nel 1794, i resti furono trasferiti al Pantheon.
Il parco era stato concepito da Girardin come un circuito di stazioni segnate da apposite sedute culminanti nella Panca delle madri di famiglia, così detta in omaggio alla pedagogia del ginevrino. Era quello, e nessun altro, il punto prestabilito per mirare la tomba. Über-panca, chiosa Jakob, in quanto ne sussume ogni declinazione possibile: presenta un testo, inquadra un paesaggio, indica una direzione e un oggetto specifico, si fa protagonista di tutta una serie di racconti. Diventa un cliché, raffigurato in stampe e cartoline, ispira "rêverie" articolate, sentimenti, lacrime. Una panchina ha il potere di definire. Se a Ermenonville permette la focalizzazione ipnotica su Jean-Jacques, in Tarda estate di Adalbert Stifter ogni mondo privato è ritagliato e sussunto nelle varie panche: sotto il tiglio, il ciliegio, il frassino. Nell’Avventura di Antonioni cala una lama di ghigliottina sul rapporto di coppia, nel ritratto di Tolstoj e sua moglie a Jasnaja Poljana sottolinea la crisi, nei coniugi Andrews ritratti da Gainsborough adombra un enigma. La panchina può obbedire alla memoria retroattiva come alla proiezione in avanti; come oggetto imbriglia il punto di vista, come rappresentazione interroga e quasi osserva. Come nelle immagini di un Lenin dalle forze ormai declinanti nella dacia di Niznij Novgorod: da solo, accanto alla Krupskaja, con la figlia, poi sulla sedia a rotelle però accanto all’ormai inaccessibile panchina su cui, ormai livido, abbandonato sulla sdraio, ha posato il berretto in un ultimo gesto di appartenenza e possesso. Infine il fotomontaggio con cui Stalin si proclama erede di Vladimir Ilic mostrandosi seduto al suo fianco su una panchina inesistente ma tuttavia suggerita dalla balaustra.
Abbandonare il proprio posto sulla panchina è andarsene dal mondo dei viventi. Solo e depresso, ospite in una casa a Villeneuve-l’Étang, nei pressi di Versailles, Manet non smette di imprecare contro «il più orrendo dei giardini». La malattia lo fa sentire prigioniero; dipingendo la panchina vuota, sottolinea l’assenza di chi vi ha dimenticato un cappello. Se in giardini-circuito come Ermenonville la panchina supplisce alla vaghezza dell’impostazione prospettica suggerendo scorci privilegiati, ove l’assetto sia deliberatamente scenografico e intenzionale può capitare che le sedute incitino allo scompiglio di giochi prestabiliti.
Nella Reggia di Caserta Carlo Vanvitelli, figlio dell’architetto Luigi, insinuava un’antitesi al lavoro paterno creando per la regina Maria Carolina, entusiasta della moda anglo-cinese e del suo ambasciatore William Hamilton, un giardino all’inglese. E inventava certe bizzarre panchine a blocco di pietra, a prima vista quasi naturali, simili ai resti di un cantiere o di una cava. Dopo la morte del padre Carlo ne ereditò a Caserta la qualifica di primo architetto; le sue antipanchine colpiscono per il contrasto con la perfezione levigata delle sculture, suggeriscono insubordinazione alle regole classiche, sospensione tra natura e artificio.
Presentando una visione incongrua, sfalsata, predispongono delusione seriale là dove tutto era stato concepito come degno di ammirazione. E intanto permettono un riposo mentale dall’eccesso di dati mitologici, spaziali, pittoreschi, minando alla radice la dittatura scopica della panchina. Se in soggezione implicita a tale arcano potere Roquentin, protagonista di La nausea, da una visione velata del mondo raggiunge il disvelamento seduto, va da sé, su una panchina, e se viene spontaneo immaginare così seduto Leopardi in contemplazione dell’Infinito, l’illuminazione del Buddha all’ombra del Ficus religiosa di Bodh Gaya fa a meno di un sedile ancorato a terra. Colpisce l’alterità tra mondi in cui si lascia che sia la presenza di supporti fissi, sorta di trespoli dove posare il corpo e liberare l’animo alla contemplazione, a decidere per noi che posto occupare nello spazio, e altri in cui si utilizzano tuttalpiù cuscini o panchetti, dove sedersi non è atto prestabilito, e più fluido appare il rapporto con la natura e lo spazio.