Antonio Audino, Il Sole 24 Ore 6/4/2014, 6 aprile 2014
DI ETÀ E VOLTO PIUTTOSTO INCERTI
È senza dubbio l’autore teatrale più studiato, tradotto e rappresentato in ogni angolo del mondo, ma William Shakespeare è anche l’artista di tutti i tempi maggiormente avvolto dalla fitta nebbia del mistero. Date, elementi biografici, aspetto fisico, perfino la sua scrittura, tutto si presta a uno scandaglio degno di un detective o sembra voluto dagli intrecci e dai depistaggi di un geniale giallista.
Ma andiamo con ordine. Quando è nato il grande drammaturgo? Chissà. A esserci pervenuta è soltanto l’annotazione sul registro dei battesimi a Stratford-upon-Avon il 26 aprile 1564, ma da quanti giorni il piccolo Willie aveva aperto gli occhi sull’affollato e confuso palcoscenico del mondo? Due, tre, un mese? Soltanto un centinaio di anni dopo i suoi orgogliosi conterranei avrebbero deciso di segnare la sua nascita al 23 di aprile, festa di San Giorgio, patrono nazionale, data coincidente per altro col giorno della morte del drammaturgo nel 1616. Già, ma ammesso che fosse vera questa singolare coincidenza, su quale almanacco stiamo fissando queste date? Bisogna tener conto che l’Inghilterra resterà fedele al calendario giuliano fino al 1752 mentre in quasi tutto il resto d’Europa era entrata in uso nel 1582 la riforma gregoriana. Se quindi la presunta data di nascita potrebbe andar bene a tutti, per la morte bisognerebbe calcolare dieci giorni in più (visto che ne furono aboliti undici con un tratto di penna quando anche oltre Manica ci si uniformò al continente) arrivando quindi al 4 maggio. Si riduce così a una clamorosa svista l’idea che Shakespeare sia morto nello stesso giorno del 1616 in cui a Madrid spirava Cervantes e a Cordova lo scrittore incaico-spagnolo Garcilaso de la Vega, equivoco così ben radicato da far decidere all’Unesco che in quella data venga festeggiata la giornata mondiale del libro.
Altrettanto difficile è capire che faccia avesse Shakespeare. Tutti pensiamo a quel omino minuto, pelato, con i baffetti e un gran colletto rigido che appare in una celebre incisione. Sarà stato veramente così? Già il fantoccio eretto nella chiesa di Stratford sopra la sua tomba, capigliatura a parte, sembra assomigliare poco all’altra fisionomia. Fatto sta che questi due ritratti, ritenuti i più attendibili, sono stati eseguiti diversi anni dopo la scomparsa del drammaturgo, mentre per quello che riguarda il dipinto conservato alla British National Portrait Gallery (nella foto), da qualcuno attribuito al più noto attore della compagnia con cui Shakespeare lavorava, Richard Burbage, i dubbi si estendono ormai sia all’autore che alla figura effigiata. A infittire la congerie di ipotesi si è aggiunto da qualche anno il celebre ritratto ritenuto perduto, l’unico che sia stato realizzato in vita, quando Shakespeare aveva 46 anni, quindi sei anni prima della morte, ritrovato nel momento in cui un aristocratico inglese, discendente del chiacchierato amico del drammaturgo, il Duca di Southampton, scoprì, osservando una copia fiamminga vista in una mostra, che l’originale era su un camino del suo castello da centinaia di anni. Fatto sta che il cosiddetto ritratto Cobbe (lo vedete nella copertina di «Collezione») ci presenta un uomo giovanile dalla folta chioma, dalla barba rossiccia e dai lineamenti affinati e sottili, piuttosto differente dalle altre raffigurazioni. In così poco tempo il volto del drammaturgo sarebbe stato poi «dalla mano oltraggiosa del tempo sgualcito e consunto», per usare un’immagine dei suoi Sonetti? Il pittore aveva voluto compiacere il suo soggetto aggraziandolo? La memoria di chi lo aveva immortalato successivamente era così fallace? Non lo sapremo mai.
Certamente nulla a che vedere con le fattezze di Joseph Fiennes nel film Shakespeare in Love, dove l’autore viene reso nostro contemporaneo grazie alla triangolazione muscoli-sesso-psicanalisi, componendo il più illegittimo dei profili che si potessero tracciare. Ma facciamo conto che tutto questo rientri in un generico ambito di curiosità, relativamente a un personaggio di cui, in fondo, ci interessano soprattutto le opere. A questo punto al detective o al giallista è bene che si affianchino filologi e storici, o per lo meno tutti coloro che hanno perso la testa nel capire cosa questo autore abbia veramente scritto. Di tutti i suoi testi teatrali Shakespeare non ci ha lasciato neppure una riga autografa, tantomeno un testo a stampa da lui commissionato o seguito. Restano invece una serie di pubblicazioni clandestine realizzate dopo il successo degli spettacoli, dissonanti e contrastanti tra di loro.
A far giustizia e chiarezza sarebbe dovuta servire l’edizione completa delle sue opere, assemblata dai suoi compagni di teatro, il prezioso In Folio del 1623. Se non fosse che tutto ciò avvenne soltanto sette anni dopo la sua morte con testi tratti da copioni più volte trascritti, sottoposti alle variazioni della pratica scenica e affidati a un gruppo di tipografi spesso un po’ distratti. Le versioni che oggi si trovano in volume sono un’attentissima ricostruzione che mette insieme fonti diverse costruendo un’ipotetica verità, ricercata in virtù della coerenza interna, linguistica e narrativa delle varie parti. Si potrebbe quindi inanellare un singolare catalogo di incongruenze nei capolavori di questo autore: come mai ci viene annunciato all’inizio del Sogno di una notte di mezza estate che le nozze tra Teseo e Ippolita verranno celebrate dopo tre giorni mentre poi, finita la notte degli incanti, i due convolano al talamo? Perché Prospero dice ad Ariel nella Tempesta di divenire invisibile a tutti invitandolo contemporaneamente ad assumere l’aspetto di una ninfa del mare? Esigenze di scena? Rimaneggiamenti successivi? Distrazioni di copisti o qualche riga di piombo scomposta? Nessuno ce lo dirà mai, anche in tutti questi casi il resto è silenzio.