Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 6/4/2014, 6 aprile 2014
MODI, IL CANDIDATO DI CORPORATE INDIA
Come cinque anni fa è il candidato della Corporate India ed è il favorito nei sondaggi. Come cinque anni fa promette investimenti, sviluppo e occupazione. A fare la differenza è l’avversario, che si presenta ai blocchi di partenza più debole che mai. Narendra Modi, il controverso leader del partito nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (Bjp), sente di avere in pugno la maratona elettorale in nove tappe che si apre lunedì e termina il 12 maggio: ci vorranno 72 giorni perché gli 814 milioni di aventi diritto - quasi la popolazione dell’Unione europea e degli Stati Uniti messi assieme - possano esprimere il proprio voto. I risultati arriveranno il 16 maggio. Solo allora si saprà se stavolta Modi (63 anni) ce l’avrà fatta davvero.
Figlio di un ambulante che da bambino accompagnava a vendere te sui treni, il leader del Bjp è al governo del Gujarat dal 2001 e proprio sulla parabola di questo Stato, che ospita la popolazione dell’Italia su una superficie di un terzo più piccola, ha costruito la sua campagna elettorale, quest’anno come nel 2009. Il Gujarat, con un Pil doppio di quello della Slovenia, non è solo la quinta economia del Subcontinente. È anche lo Stato indiano che forse ha conosciuto lo sviluppo più rapido negli ultimi vent’anni, con tassi spesso a doppia cifra e superiori a quelli nazionali. Anche quando rallentava: l’anno scorso, è cresciuto "solo" dell’8%, contro il 4,5% dell’India. Quel che più conta, però, è che nel Gujarat il 90% delle strade è asfaltato e la corrente elettrica arriva 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, quando in molte aree del Paese le imprese sono costrette a dotarsi di costosi generatori autonomi per non dover interrompere la produzione durante i frequenti e lunghi black out.
«Vota per Modi - ripetono i suoi sostenitori - e Modi farà per l’India quello che ha fatto per il Gujarat». E tra i suoi sostenitori c’è il gotha dell’economia indiana, a cominciare dall’uomo più ricco del Paese, il presidente delle Reliance Industries, Mukesh Ambani, per continuare con l’ex presidente di Tata, Ratan Tata.
Modi promette 250 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni (ma la vera svolta sarebbe creare lavoro ben retribuito), 100 nuove smart city, investimenti infrastrutturali, semplificazione normativa, taglio della burocrazia e sviluppo del commercio come cuore della politica estera del Paese. Senza rinunciare ad alcuni dei cavalli di battaglia del nazionalismo economico indiano, compresa l’ostilità nei confronti delle multinazionali della grande distribuzione.
Ma quello che il Bjp sembra davvero promettere, e che l’elettorato sembra riconoscergli, è una maggiore capacità di governare e varare quelle riforme che servono al Paese per liberare il suo potenziale. Lo stesso messaggio che sembrava vincente già nel 2009. Allora però, Sonia Gandhi (67 anni) riuscì a guidare il Congresso in una rimonta quasi impossibile, consegnando a Manmoahn Singh il secondo mandato consecutivo da premier, caso raro in un Paese con una spiccata tendenza al ricambio. Che il miracolo si ripeta sembra tanto più difficile, con il partito della dinastia Nehru-Gandhi macchiato da scandali di corruzione e al centro di una sofferta transizione. Il front runner è il figlio di Sonia, Raul Gandhi (43 anni). Schivo al punto da sembrare riluttante, si è limitato a ribadire la promessa di potenziare il programma alimentare a favore delle aree rurali di un Paese che vede ancora un terzo della popolazione vivere con meno di 1,2 dollari al giorno (secondo la Banca mondiale). In rotta in tutto il Paese, il partito sembra tenere solo negli Stati più poveri. I più disincantati tra i suoi membri si accontenterebbero di conquistare 100 seggi, dai 206 attuali.
Nei sondaggi, il Bjp ha il 60% dei consensi, che nel sistema elettorale uninominale si tradurrebbero in 200-230 seggi sui 543 della Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento, a poche decine di deputati da una maggioranza che potrà comunque conquistare alleandosi con uno dei tanti e sempre più influenti partiti regionali.
I critici di Modi, tra cui il premio Nobel per l’economia Amartya Sen e gli intellettuali di area laica e anti-capitalista, gli rimproverano il nazionalismo indù che rischia di infiammare la tensione mai sopita con i musulmani. Sul suo passato pesa come un macigno l’accusa di non aver saputo o voluto impedire, e forse di aver incoraggiato, il pogrom che provocò oltre 1.200 vittime tra i musulmani nel Gujarat nel 2002, poco dopo il suo insediamento. Modi, del resto, ha cominciato a frequentare i movimenti radicali indù a otto anni, come militante di un movimento messo al bando per tre volte e dalle cui fila proveniva l’assassino del Mahatma Gandhi. Dalle critiche non si salva nemmeno il modello di sviluppo del Gujarat, accusato di favorire la grande industria senza migliorare le condizioni di vita della popolazione: il 21% dei suoi abitanti è analfabeta e nelle città così come nelle campagne i consumi crescono meno della media del Paese.
I veri avversari di Modi, però, sono le formazioni minori, i sempre più influenti partiti regionali e l’Aam Admi, il Partito dell’uomo comune del vulcanico ex funzionario del Fisco, Arvind Kejriwal, l’uomo che dal nulla è riuscito a conquistare New Delhi per perderla nel giro di qualche settimana. Non possono conquistare la guida del Paese, ma possono costringere il Bjp a una coalizione composita e litigiosa e possono impedirgli di mantenere la più impegnativa delle promesse elettorali: quella di riuscire a governare l’India.
g.didon@ilsole24ore.com