Filippo Ceccarelli, la Repubblica 5/4/2014, 5 aprile 2014
LODATI E OFFESI L’ETERNO DESTINO DEGLI INTELLETTUALI CRITICI COL POTERE
Che lunghissimo strazio, ottuso e intermittente, questo dei professori o «professoroni» che siano: è sempre tutta colpa loro, come pure ogni volta sono invocati come gli unici salvatori, va così da più di trent’anni, quando presidente Renzi o la ministra Boschi erano all’asilo.
E quindi ci si poteva caricare l’orologio, massimamente ambiguo essendo oltretutto in politica il titolo, basti pensare che già Fanfani era, perfino nei bestseller di fantapolitica, «il Professore », appellativo che vent’anni dopo toccò a Prodi, sia pure da taluni accorciato in «Prof».
In realtà si parla, ma più ancora si straparla ben sapendo che in questo genere di polemiche, l’attacco al ceto dei sapienti, non di rado divenuti fastidiosi quanto i politici, da Mussolini in poi è un tratto costante e insopprimibile dello stile populista.
Ma in un tempo non troppo lontano i professori furono a lungo entità del tutto neutrali, o approssimative, nel senso che un democristiano che non fosse stato presidente, o ministro, o onorevole, era promosso automaticamente «professore», con la stessa grazia con cui a Roma i posteggiatori rivolgono agli automobilisti la qualifica « dotto’ », donde il professor Riondino, ad esempio, per le faccende dell’Emergenza, o il professor Vinciguerra, ramo scolastico.
Ovvio che nessuno dei due benemeriti insegnava, ma questo anche oggi è facoltativo. Il punto è che per loro natura i politici li sentono competitivi. Per cui, al netto del «culturame» schifato da Scelba, i primi intellettuali malvisti furono probabilmente quelli — Ruffolo, Amato, Cafagna, Manin Carabba — che attorno al ministro socialista Giolitti ruotava intorno alla Pro-grammazione nei primi governi di centrosinistra. Professori «acchiappanuvole», non a caso, che insegnavano a credere nei «libri dei sogni».
Ma la realtà è che i leader comunque non accettano lezioni, piuttosto vogliono darle. A quel punto però — vedi Renzi che in tv suona la campanella scherzosamente annunciando «la fine della ricreazione» — il ruolo che si autoassegnano è semmai quello del maestro, s’intende elementare.
Ora, i processi di infantilizzazione del pubblico hanno fatto di recente passi da gigante. Se però occorre cercare il capostipite del dileggio anti-professorale, lo si trova già alla metà degli anni 80 in Craxi che tirò in ballo «moralisti e filosofi tanto a chilo», «intellettuali dei miei stivali» e una volta, riguardo a certi irrispettosi professori di Mondoperaio, se ne uscì: «Mi hanno stufato, cambiamoli!».
Il paradosso, o se si vuole la buffa regolarità, è che quando la politica combina disastri, allora puntualmente riemergono i professori. Ecco dunque i governi tecnici del 1992-93, gli enti pubblici saccheggiati e delegati ai cattedratici o la «Rai dei professori ». I quali professori però, assaporato il dolce e nutriente frutto del potere, in genere si montano la testa, si agitano, si pavoneggiano, diventano rapidamente antipatici e finiscono per combinare, più o meno, gli stessi guai dei politici — e a quel punto niente Authority.
Sta di fatto che una generazione di osservatori politici è oggi in grado di conteggiare tre o quattro vampate di purificazione professorale, fuori e dentro i partiti, e altrettanti trionfanti ritorni della politica, o pretesi tali, comunque conservando nella memoria un alternarsi di storie al tempo stesso ora feroci, ora patetiche e anche comiche.
Il triste destino di Rodotà, chiamato dopo mille insistenze alla presidenza del Pds e poi scartato per la presidenza di Montecitorio per far posto a Napolitano e per giunta con i voti di Craxi. Oppure il lamento rivolto da Fisichella a Fini sul modo in cui gli spicci colonnelli di An avevano preso a trattarlo: «Gianfranco, mi hanno anche detto: “professore del cazzo!”». Per non dire del povero Miglio che non solo Bossi scartò dal governo, preferendogli il «texano» Speroni, ma volle in seguito alle sue proteste qualificare «una scoreggia nello spazio».
Ciò nondimeno, nel 1996 Berlusconi arruolò, oltre a Pera, i professori Rebuffa, Melograni e soprattutto Colletti, che era un uomo allegramente caustico e quindi alla Camera prese a parlare del Cavaliere come una specie di fratello scemo. Al che, giustamente dal suo punto di vista, quello se la prese: «Ma che vogliono questi Soloni?», perfezionando i propositi di Bettino: «La prossima volta me li prendo analfabeti».
Insomma, in Italia va così, secondo un circuito per cui a parrucconi e grilli parlanti seguono generalmente olgettine, cialtroni e Lavitola, dopo di che ricomincia il giro. Così pure Tremonti fece lo schizzinoso con i professori ma, oltre a esserlo anche lui, si trovò impelagato con Milanese; e se Alemanno giustificò il pranzone della pajata a Montecitorio con la motivazione che non doveva piacere agli intellettuali, beh, l’integralismo accademico di Monti e Fornero non è che abbia lasciato tutto questo bel ricordo.
A pensarci bene il professore, anzi il Rettore cominciò a perdersi quando smise di parlare ex cathedra armonizzandosi col palinsesto. Forse sono gli spettacoli i veri nemici dei professori e dei politici, forse è per questo che li reclamano e li avvicendano come un lunghissimo e prevedibile strazio.
Filippo Ceccarelli