Gabriella Monteleone, Europa 4/4/2014, 4 aprile 2014
CHI È RAFFAELE CANTONE
Ora manca solo il “sigillo” di palazzo dei Marescialli che dovrà deliberare la sua messa fuori ruolo dalla magistratura, perché oggi il Consiglio dei ministri ha approvato la nomina di Raffaele Cantone a presidente dell’”Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche” dopo (gli unanimi) pareri favorevoli espressi dalle competenti commissioni parlamentari.
L’ok dal Csm potrebbe sembrare pura formalità, ma non per lui che ha sempre interpretato il ruolo di magistrato con la sostanza degli argomenti e dei risultati ottenuti, più che con la forma del titolo. Tant’è che per strappargli qualche commento o idea sul nuovo importante incarico che andrà a ricoprire, ci rimanda al «non appena sarà fuori ruolo e mi sarò insediato».
Per quanto da tempo salito agli onori delle cronache, Cantone non è tipo da cavalcare l’onda pur non disdegnando il confronto con i suoi lettori avendo anche scritto libri di successo, il primo, nel 2008 Solo per giustizia, (edito da Mondadori) l’ultimo, del 2013, Football Clan (Rizzoli) nel quale con il giornalista de L’Espresso, Gianluca Di Feo, ricostruisce i rapporti tra mafia e pallone. E proprio il suo primo libro racconta molto delle motivazioni che l’avevano portato, da giovane avvocato nato a Giugliano, a scegliere di guardare in faccia la camorra della sua terra martoriata diventando magistrato per combatterla a viso aperto.
Tanto da diventarne il nemico pubblico numero uno. Cantone è stato infatti fino al 2007 alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli ed è anche, se non soprattutto, grazie a lui se le più importanti indagini contro il clan camorristico dei Casalesi si sono concluse con l’ergastolo ai capi di quel gruppo: Francesco Schiavone, detto Sandokan, Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e Mezzanott, Walter Schiavone, detto Walterino, Augusto La Torre, Mario Esposito. Automatico l’inserimento del suo nome nella black list camorrista che gli ha imposto una vita blindata, con tutto quel che ne consegue.
Era stato Roberto Saviano, in Gomorra, a raccontare le gesta di questi grandi boss camorristici e delle indagini condotte e, nel frattempo, concluse con successo da Cantone. In un certo senso, uno è stato l’alter ego dell’altro, nello svelare il malaffare e la potenza economica assunta dai clan campani e che pure erano stati sottovalutati per decenni. E fu sempre Saviano, nel 2011, a tentare di lanciarlo nell’orbita politica avanzandone la candidatura a sindaco di Napoli, subito sostenuto da Walter Veltroni che considerò la proposta «forte e intelligente».
Di candidature ne sono state proposte varie al “fuoriclasse” Cantone, e forse proprio nelle motivazioni che ha dato nel declinare i ripetuti inviti da parte della politica, si può intuire il perché di questo sì all’incarico di guidare l’Authority anticorruzione.
«…Non ho intenzione di candidarmi alle primarie e a questa conclusione sono giunto non per spocchia o per snobismo culturale ma semplicemente perché credo sia la scelta più corretta e più giusta, non solo per me. Effettivamente ho ricevuto varie proposte di candidatura. Amministratori non ci si improvvisa e soprattutto una candidatura in una realtà difficile come Napoli di un magistrato (o comunque di un tecnico completamente estraneo o a digiuno di quanto accade nel complicato mondo della politica) non può essere una scelta estemporanea» così motivò allora il suo No grazie in un’intervista al Mattino.
Quindi aggiungeva: «La ragione vera è che non sono tagliato per questo ruolo; mi riconosco un’intransigenza che mi rende difficile anche solo l’idea del compromesso (parola in sé non certo soltanto disdicevole) e non ritengo di avere le doti del demiurgo, capace di risolvere gli enormi problemi di questa città». Concludeva Cantone: «Non prendere in considerazione nemmeno l’idea di candidarmi è quindi il migliore servizio che posso fare per la città; non è più tempo di ingenerare aspettative di grandi cambiamenti se poi c’é il rischio, per tante ragioni, di deluderle».
Queste parole gettano ancora più luce sul personaggio che Enrico Letta aveva scelto per far parte della task force di palazzo Chigi (insieme ad altri magistrati e funzionari) per elaborare una strategia contro il crimine organizzato. E che ora Matteo Renzi ha voluto alla guida dell’Anticorruzione (in realtà era anche in predicato per il ministero della giustizia assieme all’altro magistrato calabrese, Nicola Gratteri, con il quale, peraltro, è stato nominato da poco collaboratore – a tempo parziale e non retribuita – alla commissione Antimafia).
E sempre queste parole forse spiegano che ora crede nelle reali possibilità di fare, incidere e dare un segno di svolta alla tante volte annunciata ma mai perseguita veramente lotta alla corruzione. Evidentemente, avrà avuto garanzie di essere messo nelle condizioni di farlo, e bene: è noto che al momento l’Authority è poco più di una scatola vuota per mezzi, personale e non solo. Per ora lui continua a non sbilanciarsi: «Capiremo davvero quali sono gli spazi di operatività dell’Agenzia, al di là delle cose previste dalla legge dell’Authority, nel momento in cui cominceremo» ha detto oggi.
Altrimenti, il Cantone uomo delle istituzioni, non avrebbe accettato di “sporcarsi le mani” con un incarico di prestigio sì, ma ad alto rischio di consunzione. Deve crederci per aver accettato. Anche se era pronto a lasciare l’ufficio del Massimario della suprema Corte di cassazione: a novembre aveva presentato al Csm la richiesta di nomina a procuratore aggiunto presso la procura del neonato Tribunale Napoli nord. Voleva tornare a fare indagini, all’attività inquirente. Ora sarà in prima fila sul fronte della corruzione, terreno altrettanto insidioso senza perimetri geografici e politici.