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 2014  aprile 06 Domenica calendario

MORETTI CI FA UN FILM E LA SINISTRA FINGE DI SCOPRIRE LA MORTE


Certo, i poeti e i profeti lo dicono con ben altra potenza. Ma anche quei protagonisti della cultura pop di oggi che sono i cantautori – menestrelli del duemila – a volta azzeccano un verso (o una canzone) che, sia pure in un mare di nichilismo, è come un lampo di luce sulla condizione umana. Penso all’ultimo successo di Vasco Rossi, “Dannate nuvole”, che parla della vita come “valle di lacrime” dove “tutto si deve abbandonare” perché “niente dura” e “questo lo sai, però non ti ci abitui mai. Chissà perché?”.
Questa fragilità dell’esistenza, che davvero dura un soffio di vento e – dice la Bibbia – è come l’erba del campo (“al mattino fiorisce e alla sera è falciata e dissecca”), è la vera grande domanda che grava su di noi. Più incombente di qualsiasi problema quotidiano. Perché è la domanda sul senso della vita.
Ma noi solitamente facciamo spallucce e mettiamo la testa sotto la sabbia. C’è una scambio di battute, nel film “La grande bellezza”, che è un simbolo perfetto del nostro tempo vacuo e superficiale.
“Come stai , caro?”, chiede Jep Gambardella ad Andrea. E lui: “Male. Proust scrive che la morte potrebbe coglierci questo pomeriggio. Mette paura Proust. Non domani, non tra un anno, ma questo stesso pomeriggio, scrive”. La replica di Jep è questa: “Vabbè, intanto adesso è sera, dunque il pomeriggio sarebbe comunque domani”.
E’ un cinismo compiaciuto che oggi è molto diffuso (ci si sente furbi e spiritosi a buttarla in battuta), ma che nasconde una disperata inermità. Del resto già Pascal diceva che gli uomini, non sapendo trovar rimedio alla morte, decisero, per rendersi felici, di non pensarci. Ma quale felicità? Quella del ballo sul Titanic? Più che una grande bellezza, una grande tristezza.
Dev’esserci anche un qualche meccanismo psicologico che si è interiorizzato per evitare di guardare l’abisso. Freud sosteneva che “in fondo nessuno di noi crede alla propria morte”.
Così quando arriva è troppo tardi per pensarci. Ma la si sconta vivendo, avvertiva il poeta. E specialmente vivendo la morte delle persone che amiamo. In quel caso – e capita a tutti – per un attimo, un’ora o un giorno il teatro delle chiacchiere e dei burattini che è la quotidianità scompare e ci si trova ammutoliti davanti alla realtà.
Pare che sia un evento privato di questo tipo, la morte della madre, avvenuta l’anno passato, ad aver ispirato il film che Nanni Moretti sta girando in questi giorni a Roma e che s’intitolerà appunto “Mia madre”.
E’ già cominciata la solita solfa del set blindatissimo e però anche delle indiscrezioni da cui puntualmente filtra la trama. E’ stato Michele Anselmi sul “Secolo XIX” a parlarne. Protagonisti saranno i due figli di una madre anziana e malata: due fratelli interpretati da Moretti stesso (che arriva a licenziarsi per accudire la madre) e da Margherita Buy che nel film interpreta una regista “engagée” in via di separazione dal compagno e con una figlia adolescente.
Margherita, la regista, è alle prese con un film di denuncia sociale sulla ristrutturazione e i licenziamenti in una fabbrica mentre la vita privata incombe e gli ultimi giorni della madre impongono le solite, drammatiche domande sul tenerla in ospedale o portarla a morire a casa.
Si può immaginare la tipica fibrillazione nervosa del personaggio della Buy che non riesce a tenere insieme “l’impegno” del suo film sociale, dove la fabbrica in crisi è la metafora dell’Italia, i problemi scolastici della figlia, la separazione e il dramma di una madre morente.
Del resto Anselmi scrive che “l’idea di Moretti, al di là del tirante drammaturgico della malattia, è interrogarsi su quella che ha definito ‘una crisi culturale e sociale che ci coinvolge tutti’ ”.
Vedremo se e come il regista romano saprà farci stare di fronte alle domande immense suscitate dalla malattia e dalla morte. Vedremo se saranno solo dei pretesti narrativi, delle metafore per parlare del momento storico e sociale, o se lui avrà il coraggio di prendere di petto la questione di fondo: il senso del vivere e del morire.
Ovviamente Moretti non è Bergman, né Tarkovskij. Però potrebbe sorprendere con un accento nuovo. Ha già affrontato il tema del dolore e della morte con “La stanza del figlio” (che vinse la Palma d’oro a Cannes nel 2001). Mostrò un certo talento, ma più che fare i conti col tema della morte mise in scena il problema dell’elaborazione del lutto. Più Freud che Leopardi.
Moretti dà spesso la sensazione di un “vorrei, ma non posso”. Regista di talento, sembra non riuscire mai a scappare dalle gabbie del conformismo, dai tic e dai pregiudizi della sua generazione. Conosce e pratica (molto bene) il registro dell’ironia, ma gli è sconosciuto lo sguardo profondo e lieve della poesia.
E’ l’icona di una generazione che sembra incapace di essere libera, di mettersi veramente in discussione e di cercare la verità dovunque essa sia, anche fuori dal proprio frigorifero esistenziale.
Azzardo una previsione. Specialmente se il film andrà alla mostra del cinema di Venezia, fra qualche mese la cultura dominante – cioè il salottismo borghese-sinistrese – scoprirà che esiste la morte (perché le cose esistono solo quando le scopre lei).
Ne ciancerà con qualche serioso pistolotto per una decina di giorni e poi ordinerà un aperitivo passando ad altro. Che sia Renzi o Berlusconi, che sia l’ultima articolessa di Scalfari o papa Francesco.
Infatti nel “banal grande” politically correct in cui tramonta stancamente questa generazione di vecchi vincenti, si riesce perfino a mitizzare Francesco snobbando tutto quello che lui accoratamente dona. Con i loro assordanti applausi evitano di ascoltare ciò che dice e perdono la grande occasione della loro vita: conoscere un’ignota Misericordia.
Parafrasando Pessoa si può dire che la generazione pre e post Sessantottina ha perduto la fede cristiana per la stessa ragione per cui i suoi padri l’avevano avuta: senza sapere perché.
C’è perfino chi – come Scalfari – ogni settimana sulla “Repubblica” riesce nella spericolata operazione di osannare Francesco e proclamarsi suo amico e seguace, ma senza considerare minimamente ciò che al Papa sta più a cuore: quella Misericordia che tanto commuove il suo cuore.
Eppure proprio quella Misericordia è la grande bellezza (quella vera). Ed è la risposta alle domande più profonde.
Perché può dar senso alla vita solo qualcosa – o meglio Qualcuno – che sa vincere la morte. Altrimenti è un imbroglio.
Quella Misericordia – ha ripetuto papa Francesco – è un Uomo. L’unico che ha vinto la morte e la disperazione. La potenza e la bontà del suo sguardo hanno ridato la vita al figlio della vedova di Naim, alla figlia di Giairo, al suo amico Lazzaro.
Incontrare (e seguire) quello sguardo è la più grande fortuna della vita.
Ieri don Julian Carron, parlando davanti ad alcune migliaia di persone della Fraternità di CL, ha indicato proprio quello sguardo – Ojos de cielo, occhi di cielo – come la sola speranza: quegli occhi che ci tolgono dall’inferno dei nostri affanni e ci illuminano perché sono cammino e guida. Quegli occhi che fanno vivere tutto. E non fanno morire mai più coloro che si amano. Con Lui, caro Vasco, ogni bellezza dura. E per sempre.