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 2014  aprile 06 Domenica calendario

IN MORTE DI CESARE SIGNORACCI, CARONTE DELLA CAPITALE

C’è un posto a Roma dove sono passati tutti, ma proprio tutti, e non è il solito ristorante in centro, quello della Roma ladrona, dei salotti temuti, del “non mi avranno”, delle “feste da far fallire”. È il freddo tavolo d’acciaio dei Signoracci, quello dell’obitorio comunale di Roma, l’Ade di piazzale del Verano civico 34, dove il 75enne Cesare Signoracci, il Caronte della capitale, ha speso gran parte della sua vita.
È morto giovedì scorso il mitico discendente di quattro generazioni di tecnici di anatomia patologica: prima di lui si sono avvicendati Giovanni, Cesare I, Renato, Ernesto, Arnaldo. Andato in pensione dieci anni fa ha passato il testimone al cugino Massimo che è finito su tutti i giornali sudamericani quando per la morte di Hugo Chavez si parlò di imbalsamazione richiesta proprio all’esperta famiglia romana, del resto venne chiesto un parere ai Signoracci anche sull’autenticità dei corpi dei marziani di Roswell.
I Signoracci sono una dinastia sorta dal nulla: il bisnonno Giovanni era il custode dell’Isola Tiberina dove tutti i Signoracci sono nati, e recuperando via via gli affogati del Tevere, quelli che Gabriella Ferri avrebbe cantato nel Barcarolo Romano, «sì c’è n’anima che cerca la pace po’ trovarla sortanto che qui», Signoracci Giovanni da barcarolo passò alla cura dei morti, legandosi insieme alla moglie Assunta alla Confraternita dei Sacconi rossi (immortalati da Gualtiero Jacopetti in Mondo Cane), che recuperavano e davano sepoltura agli sconosciuti annegati nel Tevere, guadagnandosi l’appellativo sarcastico di “vetrinone”, perché faceva vedere le salme dei morti annegati da dietro una vetrina.
Una dinastia che va indietro di 140 anni, praticamente lungo tutta la Roma Moderna: quella che Italo Insolera raccontò per metri cubi, i Signoracci invece l’hanno vista sotto forma di corpi, a migliaia. Quando Stefano Lorenzetto intervistò Cesare nel 2005 per il Giornale il registro dei Signoracci contava oltre 90mila persone e 1500 salme persino imbalsamate, tra cui il quarto presidente della Repubblica Antonio Segni, l’attore Alberto Sordi e tre papi: Giovanni XXIII (esumato nel 2001 in condizioni perfette dopo 38 anni, marmorizzato dalla formalina), Paolo VI e Giovanni Paolo I.
Quarantacinque anni all’Istituto di Medicina Legale della Sapienza al Verano (quello dove è stato portato anche James Gandolfini) sono «un primato lugubre – ha ricordato Massimo Lugli su Repubblica – ma vissuto con grandissima umanità e un indistruttibile filo di pietas». In una città che conta 11 cimiteri comunali, con i tre maggiori di dimensioni da paese – Verano 83 ettari, Flaminio/Prima Porta 140 ettari e Laurentino 21 ettari – di pietas ne serve molta: per accogliere morti ammazzati, suicidi, decessi da incidenti e malori, da overdose, e ricomporli tutti in maniera dignitosa, prima di finire sepolti six feet under.
«La pietà è l’unico requisito per fare questo mestiere», aveva raccontato Signoracci a Lorenzetto. Pietà ma nessuna missione per conto di Dio: oltre la morte «secondo me nun ce sta gnente, è tutto finito». Forse bastavano i romani a Cesare Signoracci, forse aveva in mente Fellini quando diceva che «Roma è un immenso cimitero brulicante di vita» e che «la morte a Roma ha sempre un aspetto familiare, da parente, certi romani dicono “vado a trovà papà” e poi scopri che vanno al camposanto». I Signoracci di familiare ci hanno messo la dinastia, il resto lo ha fatto Roma.
C’è un mondo intero nel registro dei Signoracci, fatto di persone comuni e di nomi diventati celebri, corpi e destini modellati prima con la cera e poi con i prodotti importati dall’America. C’è la cronaca nera, tappa obbligatoria di molti giornalisti romani e infatti gli archivi storici dei giornali restituiscono molte citazioni dei Signoracci, compresa una rissa con un impiegato delle pompe funebri e un incidente col bisturi in due trafiletti degli anni Cinquanta.
La prima esperienza del decano Cesare dai capelli rossi è con il delitto Montesi a Torvaianica nel 1953 e poi con Antonietta Longo, una donna ritrovata decapitata a Castelgandolfo, delitto mai risolto. Sotto gli occhi di Cesare passa il cadavere martoriato di Pasolini (1975) e la gioventù spezzata di Giorgiana Masi (1977), la 21enne Alberta Battistelli, tossicodipendente uccisa a Trastevere dai vigili urbani nell’estate romana del 1980 per non essersi fermata con la macchina appena rubata, e il giocatore della Lazio Luciano Re Cecconi ucciso da un orefice nel 1977, passano Pasquale Alaggio, un barbone di soli 44 anni, morto in una grotta della borgata Labaro divorato dai topi (1980), e Paolo Rossi lo studente ucciso durante gli scontri con neofascisti alla Sapienza (1966), la signora Liana Fringuelli, 63 anni in fuga da Firenze con problemi psichiatrici e ritrovata mesi dopo in una boscaglia d’acacie sulla Salaria (1970), e il giovane Marcello Elisei, morto in carcere nel 1959, episodio da cui Pasolini trasse Mamma Roma.
C’è Alfredino Rampi congelato nell’azoto liquido e la fotomodella tedesca Christa Wanninger, finita a coltellate vicino a via Veneto (1963), c’è Aldo Moro devastato dai buchi dei proiettili e la sua scorta, c’è Simonetta Cesaroni del delitto di via Poma (1990) e uno sconosciuto uomo ritrovato a pezzi sotto Ponte Flaminio (1960), c’è un bimbo di nome Imperatore, figlio di due vagabondi, trovato morto in una roulotte a Cornelia (1983) e c’è la studentessa Marta Russo uccisa alla Sapienza (1997), c’è la follia omicida di Tullio Brigida che asfissiò i tre figli (1995), c’è la fine del triangolo perverso dei coniugi Casati Stampa e dell’amante Massimo Minorenti (1970), c’è Giancarlo Ricci su cui calò la ferocia del Canaro (1988) e il bandito Cimino ucciso dalla polizia sulla Nomentana dopo aver ammazzato due fratelli gioiellieri (1967).
C’è anche la giornalista Maria Grazia Cutuli (2001) e ci sono 19 carabinieri morti nell’attentato di Nassiriya (2003). Ovviamente fu il padre Arnaldo Signoracci a rimettere a posto i resti dei cadaveri dei martiri delle Fosse Ardeatine. Ci sono poi le anziane sorelle Venerea e Rosa, trovate morte nell’abitazione di Tor Carbone nel 2001 e di cui nessuno reclamò le spoglie, sorte di cui si sarebbe voluto occupare l’impiegato John May di Still Life di Ubaldo Pasolini, uno dei tanti casi rimasti ad aspettare il nulla nel terribile stanzone dei morti dimenticati.
Cesare Signoracci è morto dopo un’operazione al cuore all’ospedale Sant’Eugenio, la famiglia si è opposta all’autopsia richiesta dal cardiologo, perché come hanno raccontato a Lugli, «è inutile e poi sarebbe veramente assurdo farla proprio a lui, che ha preso parte a migliaia di esami autoptici». Adesso tocca definitivamente a Massimo, ultimo esponente della dinastia.