Michele Brambilla, La Stampa 6/4/2014, 6 aprile 2014
“È IL LATTE DI CAPRA IL SEGRETO DELLE MIE UOVA”
Ti serve un uovo al tegamino e pensi: e che sarà mai. Ma se è un uovo di Paolo Parisi, e se te lo cucina lui, «vale un piatto da tre stelle», gli ha assicurato un giorno Aimo, il grande chef di Milano. Si fa scaldare l’olio, poi si mette l’albume e prima che diventi bianco lo si sotterra di parmigiano reggiano; quindi si mette il tuorlo, altri trenta secondi a fuoco alto e poi il pepe. Quindi lo si degusta, senza piatti e senza posate: si intinge la fetta di pane direttamente nel pentolino, rigorosamente di ferro. Alla fine, per non disperdere quel che resta, è consentito l’uso del cucchiaio.
Il risultato dipende dalla bravura di chi cucina ma anche, naturalmente, dalla qualità dell’uovo. Anche qui, uno dice: un uovo è un uovo. Eppure da qualche anno i migliori ristoranti sul menù specificano: carbonara con uova di Paolo Parisi; maionese con uova di Paolo Parisi; tiramisù con uova di Paolo Parisi. E così via.
Il signore in questione, Paolo Parisi, è un genovese di 57 anni che ormai da trent’anni vive a Usigliano di Lari, nella campagna pisana, in una cascina che è poi diventata la sua azienda agricola. Stazza imponente, gran barba bianca, sei figli, modi spicci e decisi, inclinazione un po’ eremitica: si vanta di non leggere i giornali e di non guardare la tv, convinto che dal suo rifugio in collina si veda meglio il mondo: «La troppa informazione», dice, «disinforma».
Sul trono di re delle uova è salito un po’ per caso e molto per la sua propensione a non accontentarsi mai. La sua è una storia di spirito di iniziativa e in fondo anche di coraggio che può essere di lezione in questi tempo di crisi: economica, ma soprattutto di passioni.
Figlio di un medico, Parisi cominciò a studiare medicina, ma fu fermato da una folgorazione: «Mi resi conto», racconta, «che avrei cominciato a godermi la vita a quarant’anni». L’interruzione gli provocò tuttavia una discreta crisi esistenziale. «Era un piccolo fallimento, e a scopo quasi terapeutico decisi di partire dicendo a casa il classico “non so se torno”. Me ne andai con un amico. Prima tappa: in Africa con un pulmino. Dopo un anno mi ritrovai a fare il cameriere in un ristorante a Formentera. Una mattina mi sveglio e penso: ma che cosa ci faccio in questo delirio di droga e di divertimento a tutti i costi? Ubriaco di quel mondo, decido di tornare a casa, a fare una vita normale.
«Mi ritrovai a Genova che mi sentivo una specie di Gesù Cristo: con il cervello ripulito e una forma fisica bestiale. Ma dovevo trovarmi un lavoro. Pensai: il lavoro porta via l’80 per cento del nostro tempo da svegli: se fai qualcosa che non ti piace, è una vita da schifo. Vedevo la gente che lavorava per fare soldi che sarebbero serviti a “ri-crearsi” durante il week-end e le ferie. Gente che insomma lavorava per mettersi in coda in autostrada o per stiparsi su un traghetto. Una malattia sociale. L’uomo è assurdo».
Allora, da qui, la geniale intuizione, che poi è un pensiero di tutti noi: non è meglio fare un lavoro che mi piaccia? Così al tempo stesso campo e mi diverto? «Solo pochi eletti però ci riescono: cantanti, attori, artisti. Insomma non era roba per me. Io al massimo potevo evitare di timbrare il cartellino. Scelsi allora il campo della vendita. Mi piaceva l’idea di stare in giro, autogestire il mio tempo, ma mi piaceva anche il principio: guadagni se vendi. Cominciai con la Folletto. Per me fu una grande esperienza di marketing. Entravo nelle case, dicevo “permette signora?” e vuotavo il portacenere sul tappeto. Queste non facevano in tempo a fulminarmi che io zac, avevo già attaccato l’aspirapolvere alla presa. Poi ho cominciato a vendere apparecchiature mediche. Si vendeva soprattutto allo Stato: quello che valeva dieci, lo vendevi a trenta. Guadagnavo bene, anzi benissimo, sette-otto milioni al mese alla fine degli Anni ’70. E lavoravo pochissimo». Una pacchia? Eh ma proprio questo è il segreto del successo: non accontentarsi della pacchia. «La vita che facevo non mi piaceva più. Mi resi conto che il mio obiettivo era avere lo stereo dell’automobile più bello di quello del mio amico. E poi il mondo della medicina non mi piaceva, anzi per dirla tutta mi sembrava un mondo marcio. Così, me ne sono andato».
È il 1981 quando Paolo Parisi convince suo padre a comprare il posto in cui sta adesso. Nel 1984 la cascina è pronta, lui si sposa e viene a vivere qui, in campagna. «Avevo realizzato che le emozioni più grandi me le aveva date la natura. Venimmo ad abitare qui che non c’era neanche il riscaldamento. Per quattro anni abbiamo dormito con sette coperte addosso». Comincia con l’agriturismo, poi si mette a fare i salumi d’oca, quindi la cinta senese. «A un certo punto ero diventato il numero uno per la cinta senese. E questa cosa mi distruggeva. Perché quando si arriva all’apice, si comincia a scendere». E così Parisi parte per una nuova sfida: diventare il numero uno delle uova.
«Ho preso le galline livornesi, che sono il tipo più diffuso del mondo. Poi, siccome avevo fatto il pastore e avevo una certa dimestichezza con le capre, pensai: perché non proviamo a dare il latte di capra alle galline?». Il risultato pare strabiliante: uova bianchissime, albume più ricco e tuorli molli, grassi, leggeri... «Guardi, la verità è che l’uovo del contadino è illegale perché non è controllato. E io faccio l’uovo del contadino controllato. Tutto qui».
Così è nato il mitico «uovo di Paolo Parisi», che il suo ideatore vorrebbe presto distribuire anche nei supermercati, perché la sua religione è «prodotti di qualità ma per tutti». Certo un ostacolo ci sarebbe: «Il mio uovo ha un costo assurdo», ammette Parisi. Lui li vende a 88 centesimi l’uno, nei negozi li trovi a un euro e mezzo e perfino due euro l’uno. «Però sa una cosa? La gente dovrebbe fare questa riflessione: il chewingum costa 85 euro al chilo, più del prosciutto crudo, che ne costa 55. Una mia confezione di uova costa nove euro, anche meno. E l’uovo lo puoi cucinare in molti modi: con le acciughe, con il baccalà, con il carpaccio di manzo, con i funghi, con il formaggio, con il prosciutto, con la polenta, con il caffè, con il cioccolato...».
Oggi l’azienda agricola di Paolo Parisi ha duemila galline che producono mille uova al giorno. Se gli chiedi che cos’ha di speciale il suo uovo, lui risponde così: «Potrei raccontare mille balle su proteine, Omega 3, quantità di acqua eccetera. La verità l’ha detta un giorno un bambino che l’ha mangiato: “Quest’uovo sa più di uovo”».
[6 - fine]