Mario Deaglio, La Stampa 6/4/2014, 6 aprile 2014
IL CICLONE UCRAINO SULL’ECONOMIA MONDIALE
Sono passate quasi sette settimane dal 18 febbraio, quando si ebbero le prime vittime nelle manifestazioni di piazza a Kiev. In queste sette settimane la crisi dell’Ucraina ha fatto da catalizzatore a un cambiamento rapido e profondo nei rapporti economici e politici mondiali: improvvisamente, la globalizzazione non sembra più la stessa, il sistema che tiene assieme i mercati finanziari del pianeta non sembra più lo stesso, i rapporti economici e politici tra Stati Uniti e Unione Europea e l’orizzonte delle politiche economiche e monetarie europee non sono più gli stessi. E’ curioso notare che, anche senza alcun riferimento a Kiev, anche a Parigi e a Roma la situazione, i tempi e lo stile della politica sono profondamente mutati.
Lo scontro frontale tra Stati Uniti e Russia a proposito della Crimea ha lacerato il tessuto dei rapporti economici globali. Alla Russia sono state minacciate (e applicate fortunatamente, almeno per ora, in maniera quasi solo simbolica), gravi sanzioni economiche. Tutto ciò ha provocato una forte caduta del rublo che potrebbe destabilizzare, assai più delle sanzioni, i rapporti commerciali Russia-Europa. All’Ucraina, la cui situazione economica appare insostenibile, il Fondo Monetario Internazionale ha deciso, su pressione degli Stati Uniti e con una procedura insolitamente rapida anche se per ora solo preliminare, di accordare aiuti giganteschi (14-18 miliardi di dollari).
Segnali di un cambiamento profondo vengono anche da piccoli mutamenti di costume: l’americana McDonald’s ha chiuso i suoi tre ristoranti in Crimea e il partito nazionalista russo ha auspicato che chiuda anche tutti quelli in Russia. E da grandi mutamenti di politica: il governo tedesco ha deciso di creare, senza l’aiuto degli americani, una nuova difesa antimissile non più rivolta solo verso Est ma in tutte le direzioni.
Il presidente Obama ha varcato l’Atlantico per offrire ai Paesi dell’Unione Europea lo «shale gas» – la nuova forma americana di energia petrolifera di cui gli Stati Uniti vietano di fatto l’esportazione – allo stesso prezzo protezionistico al quale viene reso disponibile alle imprese americane purché gli europei riducano o sospendano gli acquisti di petrolio e gas russo. La proposta americana estenderebbe a tutta l’Europa l’ombrello di un nuovo protezionismo energetico, segnando probabilmente l’abbandono della logica del mercato nei rapporti internazionali, da tempo un vero e proprio Vangelo per gli Stati Uniti. Nel frattempo potrebbe avverarsi la «profezia» contenuta in una recente copertina del settimanale «The Economist» che rappresenta il mondo come un insieme di città piene di grattacieli e circondate da alti steccati.
Gli Stati Uniti stanno quindi riducendo abbastanza radicalmente il loro impegno per la libertà dei mercati internazionali e continuano a diminuire l’immissione di liquidità nell’economia americana e mondiale, dopo averla spinta verso dimensioni pericolose. Un’immissione di questo tipo, eccessiva per l’America, può essere essenziale per l’Europa: tre giorni fa, di fronte al pericolo di un blocco dell’economia europea determinato dalla deflazione, il presidente della banca centrale tedesca, Jens Weidmann ha (finalmente!) abbandonato la sua opposizione di principio alla creazione di liquidità. E la banca centrale europea si è immediatamente messa a studiare un’iniezione di mille miliardi di euro, da realizzarsi nell’arco di dodici mesi con l’acquisto di titoli sul mercato. Ciò che è eccessivo per l’America può essere essenziale per l’Europa e la base della tanto sospirata ripresa, che potrebbe risultare particolarmente marcata in Italia. Sempre che non venga imboccata anche in Europa la strada del protezionismo, richiesta a gran voce dai partiti antieuropei a cominciare dal Front National francese.
Il timido rilancio dell’economia italiana, confermato in questi giorni dal terzo, sia pur debole, aumento consecutivo mensile delle vendite di auto, deve avvenire in questo mare agitato. Quel poco di ripresa che finalmente è visibile in l’Italia dipende soprattutto dalla domanda estera e la parte più dinamica di tale domanda viene dai Paesi emergenti. I cinesi che imparano a bere vino, gli indiani che familiarizzano con il caffè espresso, i brasiliani e quant’altri che usano attrezzature sportive progettate e fabbricate in Italia sono altrettanti simboli di un’integrazione pacifica, di un confronto di consumi e costumi, di una nuova sintesi dei modi di vita che riduca le incomprensioni ed eviti gli antagonismi. Oltre Atlantico sembrano invece farsi strada atteggiamenti esasperati, arriva un’esortazione perché il mondo ricco «ce la faccia da solo».
Ben difficilmente l’Europa potrebbe seguire questo atteggiamento e, in ogni caso, né la forte Germania né la debole Italia potrebbero «farcela da sole» perché sono i due Paesi con i maggiori investimenti in Russia, e quindi con i maggiori interessi a una crescita tranquilla e regolare di quell’economia. Se i russi dovessero chiudere i rubinetti del loro gas e del loro petrolio, il prossimo inverno soprattutto la Germania e l’Italia starebbero al freddo e pagherebbero molto più care l’elettricità e la benzina. Un’Europa che esportasse di meno sarebbe costretta a lavorare di più per mantenere il medesimo livello di vita, un paradosso solo apparente da offrire alla meditazione dei cittadini che saranno tra poco chiamati alle urne europee.
mario.deaglio@mailbox.lastampa.it