varie, 7 aprile 2014
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 7 APRILE 2014
Secondo un’analisi condotta dal Daily Telegraph, dal settembre scorso i prezzi sono scesi mediamente dell’1,5% in Europa e dell’1,6% in Italia. La cosa, nel 2018, potrebbe aver prodotto un aumento del valore del debito francese del 10%, di quello italiano del 15%, di quello spagnolo del 24% [1].
Fubini: «Ad accezione dei mesi seguiti alla caduta di Lehman Brothers, non era mai successo nell’Europa del dopoguerra che l’indice generali dei prezzi cadesse a questa velocità. All’inizio del 2013 l’inflazione della zona euro era attorno al 2%, praticamente in linea con l’obiettivo di stabilità dei prezzi che la Bce è stata creata per assicurare. Ancora un anno fa l’inflazione dell’area viaggiava all’1,7%, mentre l’Italia era appena al di sotto. Avanti veloce di dodici mesi e il panorama diventa irriconoscibile: a marzo il valore è crollato allo 0,5% in Eurolandia e allo 0,4% in Italia. Cinque Paesi su diciotto – Slovacchia, Portogallo, Grecia, Cipro e adesso anche la Spagna – sono già scivolati in deflazione» [2].
Deflazione: è l’esatto contrario dell’inflazione. Anziché salire, i prezzi scendono. Perché siamo in deflazione? La caduta della domanda (la crisi); la caduta dei prezzi delle materie prime (i cinesi comprano meno); la caduta dei prezzi dell’energia (gli americani, con lo shale-gas, hanno in casa tutta l’energia che vogliono); la caduta dei prezzi delle importazioni (euro troppo forte) eccetera [3].
Conseguenze della deflazione: rallentano i consumi perché le famiglie rinviano ogni spesa nell’idea che domani costerà di meno; le imprese si ritrovano con ricavi e redditività in calo e reagiscono tagliando produzione e occupazione, dunque i salari. Lo stesso effetto a spirale che per tanti anni ha paralizzato l’economia giapponese [2].
Può sembrare paradossale parlare di scenari preoccupanti in giorni in cui affluiscono grandi quantità di capitali verso l’area euro, in particolare in Italia: i titoli pubblici vengono collocati facilmente e lo spread scende. Ma c’è qualcosa di spietato nell’algebra: se il differenziale Btp/Bund scende più lentamente del tasso d’inflazione il peso reale del debito aumenta. Con la conseguenza che adempiere agli impegni di riduzione dello stesso diventa impossibile. E alle condizioni di crescita di oggi l’Italia sarebbe costretta a trovare dieci-quindici miliardi l’anno di tasse o tagli di spesa in più (su base permanente) per rispettare il Fiscal Compact europeo [4].
Come nella depressione degli anni Trenta, queste sono ottime notizie per chi vive di rendita, perché l’inflazione non erode un capitale investito. Ma sono terribili notizie per chi ha un debito. Il caso di quello pubblico italiano è probabilmente quello più rilevante [3].
Fubini: «Ogni anno il Tesoro emette oltre 450 miliardi di nuovi bond per finanziarsi, pagando in media un interesse vicino a quello di un Btp a cinque anni. Il rendimento di quel titolo è sceso, dal 2,8% di un anno fa all’1,9% di questi giorni. Nel frattempo però l’inflazione è scesa di più, dunque il costo di ogni euro di nuovo debito pubblico dell’Italia sale in termini reali anche quando lo spread fra Bund tedeschi e Btp scende. Per ogni euro degli oltre duemila miliardi di vecchio debito pubblico l’onere da bassa inflazione poi è ancora più forte, perché i tassi d’interesse sui vecchi titoli sono più alti. In queste condizioni il debito pubblico non scenderà mai. Proiettando l’inflazione, la crescita, le cedole su Bot o Btp e il surplus di bilancio di oggi fra vent’anni, la situazione diverrebbe insostenibile: il debito pubblico sarebbe al 148% e in aumento. Invece con un’inflazione anche com’era un anno fa, sarebbe di quasi 30 punti più basso e in calo» [2].
Durante questo ultimo anno, per la verità, la Bce non è rimasta con le mani in mano. Ha tagliato i tassi di 0,25% a maggio scorso, poi ha replicato in novembre. A luglio ha anche promesso che il costo del denaro non sarebbe più salito per molto tempo a venire, senza precisare per quanto. Sarcina: «Oggi il tasso principale al quale le banche commerciali europee prendono in prestito il denaro presso gli sportelli della Bce è allo 0,25%, un minimo che né la Bundesbank, né la Banca d’Italia avevano mai esplorato. Però l’inflazione si è mossa più in fretta della Bce, e nella direzione sbagliata. Con le sue ultime stime la Banca centrale europea ha informato che fallirà al ribasso il suo obiettivo di stabilità dei prezzi (costo della vita vicino al 2%) per quattro anni di seguito. Per accelerare servirebbe un intervento shock» [5].
Venerdì scorso il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) ha rilevato i contorni di un’operazione colossale: la Bce vorrebbe acquistare titoli pubblici e privati per circa 1.000 miliardi in un anno, 80 miliardi al mese, puntando a ottenere un incremento dell’inflazione tra 0,2 e 0,8 punti [6].
Il Faz, da sempre portatore delle tesi più conservative care alla Bundesbank, citando come fonte un esponente della Banca centrale, esprime dubbi e si domanda se «il mercato del debito privato in Europa sia grande abbastanza per il “quantitative easing”». La Bce si è limitata a puntualizzare: «Stiamo studiando diversi scenari». Non senza confermare che il voto sulle misure non convenzionali è stato unanime [7].
«Quantitative easing», stessa tecnica utilizzata in questi anni da Obama per sostenere la crescita americana (lì si sono superati i 4.000 miliardi di dollari). Sta a indicare l’acquisto massiccio di titoli da parte di una Banca centrale, effettuato con denaro di nuova emissione. Ventimiglia: «Insomma, ai piani alti
della Bce
si starebbe pensando di stampare una quantità enorme di euro per finanziare l’acquisto dei vari bond continentali. Una misura che avrebbe conseguenze molteplici, ma il cui primario effetto, almeno secondo i propositi di Draghi e dei suoi colleghi del board, dovrebbe essere quello di produrre inflazione [8].
Secondo BnpParibas il via libera agli acquisti dei titoli è probabile «nella seconda metà dell’anno». Sì, ma quali titoli? I bond di Stato, quelli italiani, spagnoli, greci? Oppure obbligazioni emesse dai privati, come banche, aziende? Chi decide? [9].
Negli Stati Uniti la Fed ha comprato titoli di Stato o con garanzia statale. In Europa, però, di Stati ce ne sono molti e non tutti con uguale affidabilità. La Bce comprerà titoli greci o italiani? Dal punto di vista tedesco, potrebbe essere un pericoloso precedente per ulteriori aiuti della banca centrale ai Paesi in difficoltà, aiuti che tolgono la pressione per le riforme. L’altra possibilità è che la Bce compri titoli di alta qualità emessi dal settore privato [4].
Nouriel Roubini: «I passaggi per arrivare al “QE” sono ancora molti. La Bce si muove sempre con troppa lentezza. Ora prima dovrà passare per una riduzione dei due tassi principali: quello di riferimento, che è quello per il rifinanziamento alle banche che è oggi allo 0,25%, e quello di deposito presso l’Eurotower che è oggi a zero e potrebbe diventare negativo. A quel punto le banche non avranno più convenienza, anzi dovrebbero pagare per lasciare i soldi presso la Bce. Meglio utilizzarli per finanziare le imprese» [7].
D’altro canto, se la Bce decidesse di intervenire con eccezionali provvedimenti espansivi, rimane il problema della loro efficacia, che potrebbe rivelarsi limitata, per almeno due ragioni. Bruni: «La prima è che parte dell’andamento dei prezzi è determinato da fattori globali, irrimediabili da politiche europee. In proposito Draghi ha ricordato che il 70% della riduzione dell’inflazione negli ultimi due anni è attribuibile alla frenata mondiale dei costi delle materie prime e dell’energia» [10].
La seconda difficoltà nel combattere la deflazione europea con la politica monetaria è che, a differenza degli Usa, nell’eurozona le banche sono protagoniste assolute del mercato del credito, mentre oltre Atlantico le imprese ricorrono molto di più al finanziamento diretto in titoli. Bruni: «Comprando quei titoli la Fed può diffondere più facilmente la liquidità in tutta l’economia. La Bce deve invece passare dalle banche, dove la liquidità può fermarsi, per varie ragioni, compresa l’imperfetta salute dei bilanci bancari e la loro conseguente ritrosia a prestare [10].
Ancora una volta Draghi dovrà convincere il tedesco Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, consigliere Bce e interprete tra i più qualificati della dottrina Merkel (rigore e austerità). Sarcina: «E così, rapidamente, traslochiamo dal regno delle tabelle in quello dei rapporti di forza. Weidmann ha offerto quella che viene considerata dai collaboratori di Draghi niente più che una generica apertura. Il confronto comincia ora e la conclusione è aperta. C’è chi ritiene che alla fine la Bce non comprerà titoli pubblici; oppure sì, lo farà, ma ripartendo gli acquisti tra i Paesi, in base alle quote detenute nel capitale sociale. La Germania possiede il 20% dell’istituto di Francoforte; la Francia il 14%; la Grecia l’1,8%, l’Italia il 12%. Ora: la zona euro ha bisogno di una manovra che faccia piovere il 37% della nuova liquidità nei Paesi più forti (Germania, Francia e Olanda) e solo il 21-22% nei più deboli (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia)? Dal punto di vista economico il “no” è scontato. Ma, ormai lo abbiamo imparato, la politica in Europa spesso segue altre logiche» [5].
della Bce si starebbe pensando di stampare una quantità enorme di euro per finanziare l’acquisto dei vari bond continentali. Una misura che avrebbe conseguenze molteplici, ma il cui primario effetto, almeno secondo i propositi di Draghi e dei suoi colleghi del board, dovrebbe essere quello di produrre inflazione» [8].
Secondo BnpParibas il via libera agli acquisti dei titoli è probabile «nella seconda metà dell’anno». Sì, ma quali titoli? I bond di Stato, quelli italiani, spagnoli, greci? Oppure obbligazioni emesse dai privati, come banche, aziende? Chi decide? [9].
Negli Stati Uniti la Fed ha comprato titoli di Stato o con garanzia statale. In Europa, però, di Stati ce ne sono molti e non tutti con uguale affidabilità. La Bce comprerà titoli greci o italiani? Dal punto di vista tedesco, potrebbe essere un pericoloso precedente per ulteriori aiuti della banca centrale ai Paesi in difficoltà, aiuti che tolgono la pressione per le riforme. L’altra possibilità è che la Bce compri titoli di alta qualità emessi dal settore privato [4].
Nouriel Roubini: «I passaggi per arrivare al “QE” sono ancora molti. La Bce si muove sempre con troppa lentezza. Ora prima dovrà passare per una riduzione dei due tassi principali: quello di riferimento, che è quello per il rifinanziamento alle banche che è oggi allo 0,25%, e quello di deposito presso l’Eurotower che è oggi a zero e potrebbe diventare negativo. A quel punto le banche non avranno più convenienza, anzi dovrebbero pagare per lasciare i soldi presso la Bce. Meglio utilizzarli per finanziare le imprese» [7].
D’altro canto, se la Bce decidesse di intervenire con eccezionali provvedimenti espansivi, rimane il problema della loro efficacia, che potrebbe rivelarsi limitata, per almeno due ragioni. Bruni: «La prima è che parte dell’andamento dei prezzi è determinato da fattori globali, irrimediabili da politiche europee. In proposito Draghi ha ricordato che il 70% della riduzione dell’inflazione negli ultimi due anni è attribuibile alla frenata mondiale dei costi delle materie prime e dell’energia» [10].
La seconda difficoltà nel combattere la deflazione europea con la politica monetaria è che, a differenza degli Usa, nell’eurozona le banche sono protagoniste assolute del mercato del credito, mentre oltre Atlantico le imprese ricorrono molto di più al finanziamento diretto in titoli. Bruni: «Comprando quei titoli la Fed può diffondere più facilmente la liquidità in tutta l’economia. La Bce deve invece passare dalle banche, dove la liquidità può fermarsi, per varie ragioni, compresa l’imperfetta salute dei bilanci bancari e la loro conseguente ritrosia a prestare [10].
Ancora una volta Draghi dovrà convincere il tedesco Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, consigliere Bce e interprete tra i più qualificati della dottrina Merkel (rigore e austerità). Sarcina: «E così, rapidamente, traslochiamo dal regno delle tabelle in quello dei rapporti di forza. Weidmann ha offerto quella che viene considerata dai collaboratori di Draghi niente più che una generica apertura. Il confronto comincia ora e la conclusione è aperta. C’è chi ritiene che alla fine la Bce non comprerà titoli pubblici; oppure sì, lo farà, ma ripartendo gli acquisti tra i Paesi, in base alle quote detenute nel capitale sociale. La Germania possiede il 20% dell’istituto di Francoforte; la Francia il 14%; la Grecia l’1,8%, l’Italia il 12%. Ora: la zona euro ha bisogno di una manovra che faccia piovere il 37% della nuova liquidità nei Paesi più forti (Germania, Francia e Olanda) e solo il 21-22% nei più deboli (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia)? Dal punto di vista economico il “no” è scontato. Ma, ormai lo abbiamo imparato, la politica in Europa spesso segue altre logiche» [5].
(a cura di Francesco Billi)
Note: [1] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 5/4; [2] Federico Fubini, la Repubblica 1/4; [3] Francesco Spini, La Stampa 4/4; [4] Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 2/4; [5] Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 5/4; [6] Stefania Tamburello, Corriere della Sera 5/4; [7] Eugenio Occorsio, la Repubblica 5/4; [8] Marco Ventimiglia, l’Unità 5/4; [9] Tonia Mastrobuoni, La Stampa 4/4; [10] Franco Bruni, La Stampa 4/4.