Paolo Isotta, Corriere della Sera 7/4/2014, 7 aprile 2014
QUANDO BERLIOZ FECE CANTARE VIRGILIO
Fra queste due coppie di versi rientra la vicenda dei Troyens di Berlioz. Or giacché nella musica poche cose esistono d’altrettanto sublime dell’Opera dedicata alla caduta di Troia e alla vicenda dell’infelice Didone (Enea a Cartagine) per trattarne incomincerò dalla conclusione.
Una retta prospettiva critica su quest’Opera e su Berlioz in genere non è possibile, e infatti quasi sempre è mancata, se non s’inquadra questa figura di compositore e poeta dal punto di vista del suo ductus stilistico.
Il primo errore prospettico nasce dal fatto di considerare Hector Berlioz un compositore romantico, anzi il compositore romantico per eccellenza. Invece egli romantico non è: e lo si vede sol che lo si confronti con quello ch’è l’autore classico-romantico più puro, Schubert; o se lo si accosti al più alto esponente dell’epoca classico-romantica, Wagner. In realtà il Berlioz giovane, quello della Sinfonia fantastica , è l’unico esponente d’una sorta di mostruoso classicismo barocco ; che in parte può corrispondere alla retorica asiana nella storia della letteratura latina. Del Romanticismo egli ricomprende bensì gli aspetti: ma, appunto, non di quello musicale, di quello letterario e pittorico. Ha qualcosa di simile agli eccessi di Victor Hugo; e lo si può accostare a Théodore Géricault: però non a quello, ultraclassico e venato di un tanto di caravaggismo, della Zattera della Medusa , ma a quello degli studî di teste dei ghigliottinati. Infatti quando io pubblicai decennî fa la monografia berlioziana di Henry Barraud misi tra le illustrazioni questi teschi: nella Sinfonia fantastica v’è il cader d’una testa nel paniere e addirittura la sua ostensione alla folla da parte del boia.
Ma Berlioz subisce una profonda trasformazione. Quello della Sinfonia fantastica , il ductus del quale è quanto di più anticlassico esista, non è il più grande né il più vero. Più egli procede nell’età più migliora; onde i suoi capolavori supremi sono il Te Deum , l’Oratorio L’enfance du Christ , l’Opera shakespeariana Béatrice et Bénédict (tratta da Tanto rumore per nulla ) e, appunto, Les Troyens . Qui egli è un artista profondamente classico. Lo è dunque a prescindere dal suo rapporto con Virgilio; ma grazie al suo rapporto con Virgilio il suo esser classico s’invera.
Virgilio l’accompagnò tutta la vita sin da giovanissimo; ed è con Shakespeare il suo nume tutelare. Nei Troiani egli riuscirà a farli stupendamente convivere. Berlioz era, lo sanno tutti, un uomo di profonda cultura e un latinista; oltre che un grandissimo scrittore: in prosa, non parlo del poeta drammatico al servizio del compositore. Sin da giovanissimo, vincitore (sia pur tardivo) del Prix de Rome , la campagna romana fu uno dei suoi luoghi dell’anima. Nei Mémoires parla moltissimo di essa e di Virgilio; ancor più lo fa in quello ch’è uno dei più straordinarî documenti della storia musicale dell’Ottocento, il suo epistolario, finalmente e faticosamente pubblicato lungo i decennî. Faccio dunque una delle tante citazioni possibili. «Talvolta, quando, anziché il fucile, avevo con me la chitarra, ponendomi al centro di un paesaggio in armonia con i miei pensieri, mi riaffiorava alla memoria, ov’era sepolto fin dall’infanzia, un canto dell’Eneide : improvvisavo allora uno strano recitativo su un’armonia ancor più strana, e mi cantavo la morte di Pallante, la disperazione del buon Evandro […]». Mi fermo qui perché tutto il passo riguarda gli ultimi libri del Poema, proprio quelli non compresi nei Troiani ; ma cito la sua conclusione: «… Rimpiangevo quei tempi poetici nei quali gli eroi, figli degli Dei, portavano così belle armature e lanciavano eleganti giavellotti la cui punta lampeggiante era adorna d’un cerchio d’oro».
Ricordo allora un po’ di date. Vagheggiati tutta la vita, I Troiani vennero composti rapidamente fra il 1856 e il 1858; fomite ne fu la terribile principessa Carolina di Sayn-Wittgenstein, la compagna di Liszt nonché sua mancata moglie (la vicenda è degna di Scarpetta: alla fine Liszt si fece sacerdote per non sposarla), la teologa, la quale in questo caso, aiutata anche dall’odio che portava a Wagner, fece qualcosa di davvero meritevole e degno di tramandarne la memoria.
Berlioz riuscì a vedere del suo capolavoro solo un’esecuzione parziale, al Théâtre-Lyrique (non all’Opéra !) nel 1863: con gli atti dal terzo al quinto, chiamati I Troiani a Cartagine . Egli era già malatissimo di quella sorta di infiammazione al colon cronicizzatasi che, senza essere un tumore, ne produceva gli effetti. L’ultima Opera venne circondata da un incredibile rispetto nazionale (Meyerbeer, dimostrandosi anche qui uno degli uomini meravigliosi del suo secolo, andò a tutte le recite con la partitura in mano) e internazionale. Ma la prima rappresentazione completa non si ebbe che nel 1890 a Karlsruhe a opera del grande wagneriano Felix Mottl e all’Opéra nientemeno che nel 1921; e le esecuzioni storiche vanno da quella del Covent Garden degli anni Cinquanta diretta da Colin Davis a quella diretta da Georges Prêtre alla Rai di Roma nel 1969 a opera di Francesco Siciliani (Cassandra era la non sempre intonata Marilyn Horne mentre Didone la grandissima Shirley Verrett) a quella diretta al Metropolitan da James Levine nel 1983, ove Cassandra è il più grande soprano drammatico dal 1945 a oggi (perché Anita Cerquetti si ritirò presto), Jessye Norman, Enea uno straordinario Placido Domingo giovane, e l’allestimento meraviglioso è dovuto al regista Fabrizio Melano e alle scene e costumi di Peter Wexler. Esso è fedelissimo all’antichità e quasi archeologico nei mille particolari dei costumi e dei totem che sfilano nelle processioni sceniche: giusta il desiderio dell’Autore di esserlo: tale ne era lo scrupolo di Berlioz ch’egli andò da Flaubert, del quale era da poco uscito il romanzo Salammbô dedicato alla guerra dei mercenarî contro Cartagine nel periodo intercorrente tra la prima e la seconda Punica, per avere ragguagli per l’allestimento della storia di Didone. Poi v’è la raffinatissima incisione realizzata nel 1994 coi complessi di Montréal da Charles Dutoit. I tre direttori che nel dopoguerra meritano di essere ricordati per i Troyens sono dunque Prêtre (che riprese l’Opera alla Scala nel 1982), Levine (straordinario anche per l’essere il suo video realizzato dal vivo in teatro: e che precisione, oltre che fuoco!) e Dutoit. Gli altri seguono in ordine sparso. Si comprende che qualsiasi allestimento sposti l’epoca della rappresentazione costituisce un doppio imperdonabile tradimento, a Virgilio e a Berlioz.
I luoghi dell’Eneide sui quali Berlioz scrive la poesia della sua Opera provengono quasi tutti dal II e dal IV libro; altre piccole aggiunte vengono dal I e dal III. Ma per avere il preciso ragguaglio dei rapporti dei Troyens con l’Eneide occorre leggere il saggio del sommo Ettore Paratore pubblicato sul programma della Scala nel 1982.
La fedeltà di Berlioz a Virgilio è commovente; ma egli coniuga il Mantovano a Shakespeare, come ho detto, per la creazione del suo più grande personaggio tragico, la Cassandra che riempie di sé il I e il II atto. Virgilio accenna di sfuggita alla vicenda della profetessa inascoltata per maledizione d’Apollo e il suo destino è da noi conosciuto per l’Agamennone di Eschilo; ma Berlioz la mostra preda delle sue preveggenti immagini di distruzione e morte e poi creatrice di una morte eroica per sé e le vergini troiane sfuggenti allo scempio dei soldati e di Pirro (Neottolemo) con un suicidio rituale collettivo. Qui ella dice, dopo essersi trafitta e porgendo il pugnale alle compagne: «Tiens, la douleur n’est rien !», che secondo me è una citazione dalle Epistole di Plinio il Giovane e dal XVI libro degli Annales di Tacito, là ove Arria, la moglie di Cecina Peto, condannato a morte da Nerone, si trafigge e nel porgergli il pugnale profferisce: «Paete non dolet », «Peto, non si soffre».
Figurette comiche desunte direttamente da Shakespeare sono i soldati che scherzano nel V atto.
Or Cassandra è causa del non sapersi attribuire I Troiani al giusto ethos storico-stilistico: giacché il drammatismo intensissimo della sua parte, le grandi campiture dei bassi orchestrali a sottolineare il suo gesto teatrale, il quasi espressionismo dei suoi Recitativi (ma allora non si riesce a collocare stilisticamente la sublime Aria Malheureux roi! ) la fanno erroneamente ascrivere a un Romanticismo musicale del quale ella non fa parte. Cassandra discende dalla grande rettorica classica: per comprenderlo occorre conoscere uno dei sommi amori di Berlioz e di Wagner, Spontini: e segnatamente quello dell’Olympie e dell’Agnes von Hohenstaufen . Cassandra è figlia d’uno Spontini moltiplicato per due. Didone è figlia d’un elegantissimo, ma non per questo meno espressivo, Classicismo gluckiano, mozartiano e (non lo si capisce perché non se ne ha la cultura necessaria) piccinniano: la Didon di Niccolò Piccinni è tra i modelli di Berlioz: su testo di Marmontel è del 1783.
Prima di parlare ancora della partitura dirò qualcosa del suo linguaggio. Il giovane Berlioz è notevole sotto l’aspetto ritmico e sovente melodico ma è assai carente sotto quello armonico che traveste grazie alla sua geniale invenzione timbrica. Ma nell’Enfance e nel Te Deum anche l’armonista è sommo: nei Troyens è squisito e non voglio solo mettere in rilievo la sua tecnica della modulazione ma l’uso del pedale armonico, che nella Chanson d’Hylas con che si apre il V atto, nel Settimino (il quale, inno alla notte com’è, è una versione sintetica e francese del diatonismo – finalmente – di O sink hernieder Nacht der Liebe del II atto del Tristan und Isolde ) e altrove è straordinario. Il classicismo lo porta addirittura a citazioni dello stile bachiano: nelle appoggiature di Didone e nel coro del III atto Gloire á Didon . Lo si cita come esempio di stile pomposo da grand-Opéra ed è invece una solenne Passacaglia…
Allora, i ritmi di spasmodica velocità nei Troyens sono uno dei mezzi più sicuri di drammatismo. Ma le invenzioni timbriche sono supreme. L’apparizione dell’ombra di Ettore nel II atto è preceduta da grandiosi annunci dei bassi orchestrali e accompagnata dal timbro sinistro dei corni con la sordina sopra spenti pizzicati (le battute d’introduzione orchestrale al II atto contengono uno dei più terribili usi della banda interna mai creati: la banda è quella delle fanfare greche durante la distruzione della città: e il disegno che fa è lo stesso che nella Fantastica è esposto dal corno a introduzione del Sabba : donde si vede esser esatta la mia idea che i compositori ricorrono a figure musicali costanti – il Figuralismo – per trasporre musicalmente immagini simili): allora non si può non pensare a come ciò anticipi l’inizio del II atto del Crepuscolo degli Dei di Wagner con l’apparizione ad Hagen dell’ombra di Alberich, la più potente raffigurazione del Male dell’intera storia delle arti: dico arti, non musica. L’orchestrazione della Caccia reale e temporale del IV atto è uno dei prodigi della musica e qui Berlioz fa il più bell’uso del sassofono (questo meraviglioso strumento non abbastanza sfruttato dai compositori) mai avutosi nella storia. La Caccia reale e temporale è anche un conciso ma completo Poema Sinfonico trasponente in musica i versi 130-172 del IV libro che da solo vale tutti quelli di Liszt, se si eccettuano le due Sinfonie: vi partecipa anche il coro femminile, senza parole, a volgere in musica il summoque ulularunt vertice nymphae («dalle più alte vette ulularono le Ninfe») del verso 168. Vi sono inoltre nei Troyens dei balletti così belli e raffinati che il solo termine di confronto mi paiono quelli di Mozart per l’Idomeneo . Naturalmente essi, per quanto attiene alla danza dei Negri, sono anche uno dei più delicati contributi all’esotismo musicale che vi siano stati.
Adesso debbo pormi la terribile domanda: riesce Berlioz a essere alla stessa altezza di Virgilio? E la risposta può essere una sola: ci arriva quasi ma non lo può del tutto. E questo perché l’altezza di Virgilio in tutta la storia delle arti è stata raggiunta solo da Giotto, Dante, Raffaello e Wagner. Su questo punto debbo fare un’aggiunta importante: si crede solitamente, alla stregua delle dichiarazioni nelle opere teoriche, che Wagner disprezzasse la civiltà romana al confronto con quella greca e che pertanto non sia da Virgilio influenzato. Nel mio libro La virtù dell’elefante che uscirà a settembre per la Marsilio dimostro invece l’influenza enorme di Virgilio su luoghi capitali dell’invenzione del Sommo.
Un rapporto tra Virgilio e Wagner va invece visto indirettamente in questo: il commento all’Eneide di Ettore Paratore, apparso per la collana Lorenzo Valla della Mondadori (uno dei vanti della cultura italiana) è qualcosa di tale vastità e ricchezza tematica che può essere qualificato solo siccome wagneriano.
Su Didone debbo fare un’importantissima postilla. Un altro vanto della cultura italiana è il volume del 1932 Il libro di Didone di Corso Buscaroli: una traduzione del IV libro dell’Eneide seguita da un commento di una ampiezza e copiosità pure queste wagneriane. È affatto introvabile anche in antiquariato: non c’è nessun editore che abbia il coraggio di ripubblicarlo?