Sergio Romano, Corriere della Sera 6/4/2014, 6 aprile 2014
QUANDO I CONFRONTI STORICI NON SERVONO A SPIEGARE IL PRESENTE
Ho letto sul Corriere della Sera del 28 marzo la sua risposta a un lettore circa le origini delle tentazioni espansionistiche russe. Mi è rimasto un dubbio. Se la presenza di nuclei più o meno cospicui della stessa etnia giustifica comunque l’intervento protettivo della nazione madre, non le pare che ogni Stato dovrebbe
essere indotto a limitare al minimo l’inserimento di stranieri nella propria popolazione, mentre al contrario la presenza umana sul nostro pianeta si è caratterizzata fin dal principio per essere una sorta di immenso e sempre attivo «melting pot»? Senza contare che le idee di Vladimir Putin ricordano inevitabilmente quelle di Hitler negli anni 30-40 del secolo scorso che portarono alle conseguenze nefaste che tutti conosciamo (Austria, Sudeti, Danzica e di male in peggio).
Gino Franchetti
Caro Franchetti,
Non credo che la presenza di una comunità di connazionali in un Paese straniero giustifichi necessariamente l’intervento della casa madre (anche se fu questo il pretesto con cui il presidente americano Ronald Reagan invase Grenada nel 1986). Ho cercato di ricordare quali siano le caratteristiche e le dimensioni del caso russo. Quanto ai confronti storici osservo che escono dal cappello del prestigiatore quando servono a rendere le proprie tesi più convincenti, ma non tengono conto delle differenze tra un caso e l’altro. La terra dei Sudeti, popolata da circa tre milioni di tedeschi, apparteneva all’impero austro-ungarico in un’epoca in cui la lealtà a una dinastia bastava a garantire la convivenza di popoli diversi in uno Stato multinazionale. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando l’impero si dissolse e il principio di nazionalità prevalse, almeno teoricamente, su altri fattori, fu un errore permettere a un nuovo Stato, la Cecoslovacchia, di conservare all’interno dei propri confini una importante minoranza, legata a un grosso Paese vicino da vincoli linguistici e culturali. I tedeschi ritennero che il trattamento riservato al governo di Praga fosse una sorta di ingiusto «doppiopesismo» e Hitler poté considerare i Sudeti un popolo «irredento» (il termine coniato dagli italiani per Trento e Trieste prima della Grande guerra).
Il caso dei russi dispersi nei territori dell’ex Unione Sovietica è diverso. Prima della dissoluzione dell’Urss erano sovietici fra sovietici, ma appartenevano alla etnia dominante. Dopo la disgregazione divennero minoranza di una maggioranza spesso ostile. Questo non significa che abbiano il diritto d’invocare l’intervento. Ma comporta per tutti l’obbligo di trattare il problema della loro convivenza con buon senso e prudenza. Quando il Parlamento ucraino proclamò l’abolizione del russo come seconda lingua nazionale, fece esattamente il contrario.
Esiste un altro confronto, quello del Kosovo, utilizzato dal governo russo per giudicare il distacco della Crimea dall’Ucraina. Chi ha favorito l’indipendenza del Kosovo, dice Putin all’Occidente, non può negare alla Crimea il diritto di fare la scelta nazionale che maggiormente conviene alla maggioranza dei suoi abitanti. E’ alquanto paradossale che la Russia ritenga di potere fare ciò che non era giusto quando fu fatto dagli altri. Ma è certamente vero che l’indipendenza del Kosovo non ha tenuto alcun conto del ruolo che quella provincia ha avuto nella storia della Serbia. Qui i serbi combatterono nel 1389 l’epica battaglia della Piana dei Merli contro l’esercito ottomano. Qui sorgono gli antichi monasteri che sono il cuore del cristianesimo greco nei Balcani. Per garantire la completa autonomia degli albanesi ed evitare il totale distacco dalla Serbia esistevano, per chi avesse voluto cercarle, altre soluzioni.