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 2014  aprile 07 Lunedì calendario

TARCISIO BURGONICH – LA ROCCIA CHE SALTÒ CON PELÉ “IL MIO CALCIO SENZA CRESTE”


IN tre ore di conversazione con Tarcisio Burgnich, detto Roccia, è inevitabile toccare l’argomento-difensori. E, in sottordine, del vivaio friulano che fu. Ma prima devo controllare un episodio: è vero che il Catania, cui serviva un difensore, convocò per un provino lui e Bruno Pizzul e preferì Pizzul? «È vero, ma non me la presi più di tanto perché poi andai alla Juve». Fu Armando Picchi a chiamarlo Roccia. In una partita con la Spal arrivarono a contendersi il pallone Novelli, un’ala veloce, e Burgnich. Novelli rimbalzò a tre metri e rimase a terra come l’avesse investito un camion. «Ti capisco, sei andato a sbattere contro una roccia», andò a consolarlo Picchi, che era un ex.
Burgnich nasce centrocampista e nelle giovanili dell’Udinese gli cambiano ruolo. Come tutti, aveva cominciato sul campetto del paese, Ruda. Il padre, Ermenegildo, lavorava alla Snia, a Torviscosa. Aveva fatto la guerra del ‘15-18 con la divisa degli austriaci («era in Marina, a Grado»). «Da bambino tenevo al Toro. Dopo Superga, in classe piangevo e i compagni mi prendevano in giro. Tra noi giocavamo il derby della Mole, le milanesi erano un realtà lontanissima. Facevamo il pallone riempiendo di fieno secco le calze di nylon, erano passati gli americani. Oppure palleggiavamo con le pallette da cricket che lasciavano gli inglesi. Per vedere un pallone vero ce n’è voluto».
Anche gli avversari (da Pulici a Riva) hanno riconosciuto a Burgnich grande lealtà, unità alla grinta. Eppure si pensa a quegli anni, moviola zero o quasi, come a una specie di Far West.
«Lo dice chi non li ha visti. I nostri allenatori ci esortavano a essere corretti, specie in area di rigore. Bisogna dire che gli arbitri erano meno permissivi, ai miei tempi. E poi, giocando addosso all’uomo, non potevi fargli molto male. Roba minima, spintine, calcettini, ma senza rincorsa. Oggi vedo falli molto più violenti: piedi a martello, entrate a forbice in scivolata, gomitate al viso. Ora parlo da difensore: ho visto gialli e rossi assurdi, è impossibile saltare stando sull’attenti o con le mani dietro la schiena. Alzare le braccia fa parte del saltare. È la gomitata premeditata, la carognata è da punire, non il salto e le braccia aperte. Una domenica a San Siro con una gomitata Riva mi ha buttato giù due incisivi e un premolare. Appena ho potuto gli ho reso il fallaccio, e poi mi sono scusato. Non ho mai avuto problemi con gli avversari. Se parliamo di Riva, di Boninsegna, di Pascutti, è tutta gente che oggi segnerebbe 40 gol a campionato. Gigi era forte e tecnico, Bobo furbo e coraggioso, Ezio una faina, se te lo scordavi un attimo faceva gol».
Burgnich in qualche modo è legato a due fotografie: Pelé in elevazione segna di testa, Pascutti in tuffo segna di testa a mezzo metro da terra.
«Più bravo Pascutti, su quel pallone ero in anticipo io, forse l’ho anche toccato con la mano. Lui non so come ha fatto, mi è quasi sbucato da sotto la pancia. Pelé va su benissimo, ma si vede che io salto storto perché sto recuperando la posizione dopo che Valcareggi ha stabilito di cambiare marcatura: io su Pelé e Bertini su Rivelino. In Messico un era grandissimo Brasile, secondo solo a quello del ‘58. Dopo il 4-3 coi tedeschi ho passato tre giorni a letto, per recuperare. In fondo, abbiamo tenuto il pari fino a 20’ dalla fine. Loro avevano sempre giocato a quote più basse, sui 1500, noi sempre oltre i 2000, anche questo forse ha fatto la differenza».
Lei ha giocato tre mondiali: perché in Messico bene, in Inghilterra e in Germania no?
«Semplice. Per colpa nostra. In Messico eravamo un gruppo vero, unito. Le altre volte c’erano i clan. Milan e Inter in Inghilterra, più una spruzzata di Bologna. Le polemiche tra Rivera e Picchi moltiplicate dalla stampa. Un giorno, prima delle convocazioni, ero andato in camera di Fabbri, caldeggiando l’impiego di Picchi. Mi disse che non poteva, sarebbe stato come cedere a una parte della critica. Prima di ogni gara Fabbri parlava per un’ora prospettando le peggiori eventualità. Io con la Corea non ho giocato, ma ricordo bene cosa disse negli spogliatoi: ragazzi, se perdiamo ci tocca andare tutti a vivere nel Ghana. E via di questo passo, togliendo serenità. Ci siamo tirati su in fretta, vincendo gli europei nel ‘68 e arrivando secondi in Messico. Ma nel ‘74 ci siamo ricascati. In Germania era Sud contro Nord, ha cominciato Juliano, ha proseguito Chinaglia. Io con la Polonia sono uscito sullo 0-0, Szarmach mi ha spinto mentre difendevo un pallone a fondocampo, mi si sono piantati i tacchetti, distorsione al ginocchio. Al posto mio è entrato Wilson e dopo 5’ Szarmach ha fatto l’1-0. Ma comunque non saremmo andati lontani. Non eravamo una squadra vera».
Veniamo al vivaio friulano. Una volta c’erano friulani in tutte le squadre, anche se qualcuno li chiamava razzapiave. Ora sono spariti. Ha una sua teoria?
«L’ho maturata allenando. Molti che arrivano al calcio sono ragazzi dotati di una sfrontatezza che in Friuli è meno diffusa. Allenamento alle 10, ben che andasse arrivavano alle 9.59. Noi, campioni d’Italia e del mondo, eravamo sul campo un’ora prima. A fare il torello o anche a raccontarci barzellette, ma guai a tardare cinque minuti. Idem dopo l’allenamento, nessuno andava via come se dovesse timbrare il cartellino. E tenga conto che a massacrarci erano i ritiri. Col Mago, in campionato, dal venerdì sera al lunedì mattina, e poi di nuovo dal martedì al giovedì se c’era una Coppa. Qualcuno dei miei giocatori m’ha detto: mister, in allenamento ai vostri tempi non facevate un cazzo. Bene, ho detto, allora vi farò fare la metà di quello che facevamo ai nostri tempi. Li ho stesi».
Come si diventa grandi difensori?
«Sostanzialmente bisogna essere umili. E poi sempre concentrati. L’attaccante è un ruolo di fantasia, il difensore no. Ti tocca sempre la seconda mossa, ti muovi in base a come si muove l’avversario. Lui vuole fare, tu impedirgli di fare. Uno dei miei primi allenatori, Comuzzi a Udine, mi diceva: con un occhio e mezzo guarda l’uomo, con l’altro mezzo occhio il pallone. Oggi il massimo nel mondo è Thiago Silva. Non gli manca nulla. Ha corsa, fisico, visione di gioco, tecnica, tiro. Io ero un difensore umile e veloce, me la sono cavata anche contro Gento. Chi ha messo più in difficoltà è stato Dzajic nel ‘68. Alla prima partita, poi gli ho preso le misure».
E i nostri difensori attuali?
«A me l’unico che piace davvero è Barzagli. Mi ricorda i nostri tempi, è un bel difensore all’antica. Non è velocissimo, ma compensa col mestiere e l’attenzione. Bonucci è più bravo tecnicamente, ma gli piace specchiarsi e ogni tanto fa quelle che ai miei tempi si chiamavano maldinate. Non me ne voglia il buon Cesare. Chiellini non mi piace: eccessivo sia quando le dà che quando le prende, troppi interventi in scivolata, generoso, non discuto, ma con tendenza a distrarsi. Ranocchia lo seguivo già quando giocava nell’Arezzo. Tecnicamente valido. Di testa più forte nell’area avversaria che nella sua, un po’ com’era Facchetti. Sullo scatto breve non c’è. Ma, sui difensori in generale, non è tutta colpa loro, credo che manchino gli allenamenti specifici, e si capisce dalle ammucchiate in area: gente che si tira, si abbraccia, si prende a pugni, ci vorrebbero cinque rigori a partita per fargli cambiare musica, ma non vedo in giro l’arbitro capace di fischiarli ».
Le piace il codice etico di Prandelli?
«Sì. Per me è un richiamo a cosa significa essere calciatori professionisti. Ma a me piacerebbe che ci fosse anche un codice estetico. A volte vedo una sfilata di ragazzi che non sai se vanno a giocare a pallone o a una trasmissione di Maria De Filippi. Le creste, i tatuaggi dappertutto, gli anellini, gli orecchini, le scarpe rosse, gialle, lilla, verdi, azzurre. Più di questo spettacolo, mi fa tristezza un bambino di otto anni pettinato come Balotelli ».
Cosa pensa di Balotelli?
«Che ha un tesoro nei piedi e lo sta buttando via. E sa di chi è la colpa? Dei primi allenatori che ha avuto da ragazzo. Ai primi segni di bullismo, bastava che lo lasciassero due partite in tribuna e avrebbe capito. Invece a loro serviva per vincere le partite, e sorvolavano su tutto. Questo è il risultato. Balotelli è un grande giocatore in potenza ma non un campione. Gli manca la continuità, la sintonia con i compagni. Un campione non è a sprazzi, un campione c’è sempre. Messi è un campione. Di quelli che potrebbero insegnare calcio. Rivera è cresciuto all’ombra di Schiaffino, Boninsegna ha imparato da Meazza a calciare i rigori, Paolo Rossi andava a studiare le finte di Hamrin, Vieri pensava a Moro e a Ghezzi. Un Roby Baggio, invece di metterlo dietro a una scrivania, non era più utile sul campo, a mostrare come si tirano punizioni e rigori ai ragazzini?».
Cosa guarda volentieri in tv?
«In Italia, solo la Juve. Spesso l’ho contata con tutti i giocatori nella sua metà campo. I primi difensori sono Tevez e Llorente. Se non giocasse così, la Juve perderebbe più partite. Conte lo sa, e per questo gioca così. Sono belli i tempi di esecuzione delle singole fasi, l’armonia dei movimenti delle linee, la partecipazione di tutti. Detto questo, oggi si gioca molto più chiusi, con difese a 5 ma dichiarate a 3. Molte squadre fanno un vero catenaccio ma guai a definirlo così. Se io ripenso alla grande Inter, c’erano solo tre difensori puri, ovviamente non conto Facchetti. Povero Giacinto, quante camere abbiamo condiviso. Era una gara a chi parlava di meno. Avevamo tanta roba da leggere, io libri di storia, lui romanzi. Buonanotte Tarci, ‘notte Cipe, alle 22.30 si spegneva la luce. Molti infortuni non dipendono oggi solo dal gioco duro, ma dal fatto che molti non rispettano i tempi di recupero».
Che ricordo ha di Herrera?
«Una persona perbene. Era stato povero, molto povero, e ci esortava a non buttare via i soldi. Aveva la mania dei ritiri, multava chi giocava a carte, un po’ di biliardo lo tollerava, ma col suo arrivo è stato come salire su un’astronave del futuro. Aveva istituito per i giocatori dei corsi d’inglese, cinquant’anni fa, e anche di yoga, che lui praticava tutti i giorni. La soddisfazione più grande è la vittoria sul Real a Vienna. Abbiamo sconfitto i nostri idoli, le nostre figurine».
E quanto vi ha fruttato?
«Molto meno del milione di euro che il Psg avrebbe promesso ai suoi: quattro milioni di lire».
Ha rimpianti?
«No. Quando l’Inter mi ha giudicato troppo vecchio, mi ha mandato a Napoli e a Napoli, con la zona di Vinicio, mi sono proprio divertito. Non c’erano grandissimi nomi, ma eravamo uniti e per un pelo non abbiamo vinto lo scudetto, nel ‘75. Quando sono partito da Udine per Torino, non pensavo che dal calcio avrei avuto tutto quello che ho avuto. Da giocatore. Da allenatore, mi chiamavano squadre costruite un po’ alla carlona, sempre nella parte destra della classifica, a volte con un piede nella serie inferiore. Ragionamento dei presidenti: se andiamo in B è colpa di Burgnich. Era più colpa loro, ma non importa. Se mi giro indietro, sono felice».