varie, 5 aprile 2014
BLOB DEFLAZIONE
Il Telegraph ha calcolato che da settembre i prezzi sono mediamente scesi in Europa dell’1,5% e in Italia del 1,6%. La cosa, nel 2018, potrebbe aver prodotto un aumento del valore del debito francese del 10%, di quello italiano del 15%, di quello spagnolo del 24% [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 5/4/2014].
Giorni fa Draghi ha spiegato che se i dati sull’andamento dei prezzi facessero capire che la deflazione, da pericolo, sta diventando realtà, allora non esiterebbe a stampare moneta e/o a comprare a man bassa titoli pubblici persino emessi dai privati [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 5/4/2014].
I tedeschi, che in altri tempi sarebbero insorti come un sol uomo, stanno zitti. Anzi Weidmann, presidente della Bundesbank, una settimana ha sorpreso tutti dicendo che se la Bce compra titoli di Stato non c’è niente di male. È la dichiarazione che dovrebbe preoccuparci di più, facendoci capire che la deflazione è un rischio concreto [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 5/4/2014].
Ieri Draghi ha simulato l’acquisto da parte della Bce di mille miliardi di euro in titoli (è come se stampasse moneta per mille miliardi, serve a combattere la deflazione con l’inflazione). Si avrebbe un effetto sui prezzi (cioè sull’inflazione) di un +0,2/+0,8. È il "quantitative easing" del Giappone e della Federal Reserve. La Fed, per combattere la deflazione, ha comprato per un pezzo 85 miliardi di titoli ogni mese [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 5/4/2014].
Perché siamo in deflazione? La caduta della domanda. La caduta dei prezzi delle materie prime (i cinesi comprano meno). La caduta dei prezzi dell’energia: gli americani, con lo shale-gas, hanno in casa tutta l’energia che vogliono e a basso prezzo. Uno dei guai, è che non abbiamo in mano tutte le armi che ci servono per combattere. Per il 70%, la deflazione è un prodotto del mondo globale [Giorgio Dell’Arti, Gazzetta dello Sport 5/4/2014].
Le simulazioni tecniche allo studio, come quella rivelata ieri dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung , disegnano il contorno di un’operazione colossale: la Bce potrebbe acquistare titoli per mille miliardi di euro e dare al tasso di inflazione una spinta stimata tra gli 0,2 e gli 0,8 punti percentuali. Mille miliardi: la stessa cifra che l’istituto di Francoforte ha prestato alle banche europee negli ultimi tre anni, con risultati quasi nulli sull’economia reale dei Paesi più in difficoltà (e l’Italia è tra questi) [Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 5/4/2014].
Prezzi troppo bassi si traducono in mancati ricavi per le imprese e quindi in meno investimenti, meno assunzioni. «Mi spiace, ma ora i giapponesi siete voi», dice Richard Koo, capo economista del centro studi della finanziaria nipponica Nomura.
La sua collega Lucrezia Reichlin, nella discussione a porte chiuse, mostra una tabella che sembra irridente: nell’ultimo anno la Bce ha sistematicamente sopravvalutato il tasso di inflazione, immaginandolo all’1,5% quando era di poco superiore allo 0,7%, o all’1%, ultima previsione riferita a marzo 2014, quando invece ristagna allo 0,5% [Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 5/4/2014].
Ma prima di diventare operativo lo schema Draghi dovrà superare qualche passaggio complicato. Il compito centrale della Bce è quello di contenere l’inflazione: l’obiettivo è quello del 2%. Il traguardo di medio termine, da qui al 2016, è fissato all’1,5%. Traguardo realistico? Il board di Francoforte ufficialmente comincia a dubitarne. Ma ufficiosamente è convinto che consumi così deboli non siano in grado di trainare i prezzi a quel livello. Tagliare ancora il tasso di interesse non sarebbe sufficiente (è già allo 0,25%); i prestiti alle banche non sono serviti. E allora non resta che tentare con il «quantitative easing», che non sono altro che le vecchie operazioni di mercato aperto adottate fin dagli anni Trenta negli Stati Uniti. La Bce compra sul mercato secondario titoli parcheggiati nel portafoglio delle banche, ritirando carta in cambio di moneta e sperando che questa passi poi dal circuito finanziario alle imprese, alle famiglie. Sì, ma quali titoli? I bond di Stato, quelli italiani, spagnoli, greci? Oppure obbligazioni emesse dai privati, come banche, aziende? Chi decide? [Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 5/4/2014].
C’è chi ritiene che alla fine la Bce non comprerà titoli pubblici; oppure sì, lo farà, ma ripartendo gli acquisti tra i Paesi, in base alle quote detenute nel capitale sociale. La Germania possiede il 20% dell’istituto di Francoforte; la Francia il 14%; la Grecia l’1,8%, l’Italia il 12%. Ora: la zona euro ha bisogno di una manovra che faccia piovere il 37% della nuova liquidità nei Paesi più forti (Germania, Francia e Olanda) e solo il 21-22% nei più deboli (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia)? Dal punto di vista economico il “no” è scontato. Ma, ormai lo abbiamo imparato, la politica in Europa spesso segue altre logiche [Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 5/4/2014].
La Banca centrale europea potrebbe decidere di acquistare titoli pubblici e privati per circa 1000 miliardi, 80 miliardi al mese per un anno, puntando a ottenere un incremento dell’inflazione tra 0,2 e 0,8 punti. A dirlo è il quotidiano tedesco «Frankfurter Allgemeine Zeitung» (Faz) all’indomani dell’annuncio fatto dal presidente Mario Draghi sull’unanime convinzione del consiglio direttivo in merito all’attuazione di un programma di stimolo all’economia, così da contrastare i rischi di una prolungata fase di bassa crescita dei prezzi e di ristagno [Stefania Tamburello, Corriere della Sera 5/4].
La nota ufficiale, rilevando come la questione si ancora tutta da studiare, sembra dunque far emergere anche una certa irritazione per la corsa in avanti del quotidiano, da sempre portatore delle tesi più conservative, care alla Bundesbank, sul mandato della Bce. Tanto più che l’articolo della Faz, citando come fonte un esponente della Banca centrale, esprime dubbi e si domanda se «il mercato del debito privato in Europa sia grande abbastanza per il quantitative easing». Il consiglio «è stato unanime nel suo impegno a usare anche misure non convenzionali», precisa di rimando la nota ufficiale dell’Eurotower [Stefania Tamburello, Corriere della Sera 5/4].
Fatto sta che ieri i mercati hanno continuato a salutare con favore l’ipotesi di un intervento di sostegno all’economia della Bce: lo spread fra i rendimenti dei Btp decennali e i Bund tedeschi di uguale durata ha chiuso a 162 punti dopo essere sceso a quota 159 punti, il più basso da tre anni, mentre il tasso dei Buoni è calato al 3,17% dopo essere diminuito al 3,15%, il minimo storico dall’introduzione dell’euro [Stefania Tamburello, Corriere della Sera 5/4].
La Banca centrale europea ha in programma di erogare mille miliardi per evitare il rischio della deflazione, ovvero un eccessivo ribassamento dei prezzi e "produrre" inflazione. Lo ha scritto sul suo sito la Frankfurter Allgemeine Zeitung. L’istituto presieduto da Draghi Bce dopo la rivelazione del quotidiano tedesco: intervento non ancora deciso [Marco Ventimiglia, l’Unità 5/4].
La definizione sta ad indicare l’acquisto massiccio di titoli di Stato da parte di una Banca centrale, effettuato con denaro di nuova emissione. Insomma, ai piani alti di Eurotower si starebbe pensando di stampare una quantità enorme di euro, fino a mille miliardi come riportato dal più autorevole quotidiano tedesco, per finanziare l’acquisto dei vari bond continentali. Una misura che avrebbe conseguenze molteplici, ma il cui primario effetto, almeno secondo i propositi del presidente italiano della Bce e dei suoi colleghi del board, dovrebbe essere quello di produrre inflazione. E qui, visto che quest’ultima parola, evoca generalmente scenari negativi, occorre una seconda spiegazione [Marco Ventimiglia, l’Unità 5/4].
Come appare evidente ormai da tempo, le priorità economiche e finanziarie avvertite in Italia non coincidono necessariamente con quelle complessive identificate a livello di Unione e Banca centrale europea. In particolare, se da noi le emergenze assolute sono il rilancio della crescita e dell’occupazione, a Bruxelles e Francoforte si agita da qualche mese uno spauracchio, quello della deflazione. Una discesa generalizzata dei prezzi che potrebbe uccidere “in culla” la ripresa economica in atto in varie nazioni europee, e creare problemi alla stessa Germania mettendo in difficoltà le imprese e disorientando i consumatori. Una preoccupazione peraltro amplificata da un numero reale, ovvero l’ultimo dato relativo all’inflazione nell’Eurozona che la fotografa ad un magro 0,5%, ben al di sotto del livello ottimale del caro vita indicato dalla stessa Bce, fra l’1,5 ed il 2% [Marco Ventimiglia, l’Unità 5/4].
Intantola Frankfurter Allgemeine Zeitung, ilgiornale tedesco con fama di rigorista, ipotizza una cifra per gli interventi: mille miliardi di euro in un anno. E l’Eurotower si limita a puntualizzare: «Stiamo studiando diversi scenari». Non senza confermare che il voto sulle misure non convenzionali è stato unanime. Nell’ipotesi 1000, dice la Faz( in America si sono già superati i 4000 miliardi di dollari), l’inflazione salirebbe fra lo 0,2 e lo 0,8% [Eugenio Occorsio, la Repubblica 5/4].
Ma i passaggi per arrivare al “QE”, avverte Nouriel Roubini, «sono ancora molti. La Bce si muove sempre con troppa lentezza. Ora prima dovrà passare per una riduzione dei due tassi principali: quello di riferimento, che è quello per il rifinanziamento alle banche che è oggi allo 0,25%, e quello di deposito presso l’Eurotower che è oggi a zero e potrebbe diventare negativo. A quel punto le banche non avranno più convenienza, anzi dovrebbero pagare per lasciare i soldi presso la Bce. Meglio utilizzarli per finanziare le imprese» [Eugenio Occorsio, la Repubblica 5/4].
Di quantitative easing, precisa Brunello Rosa, responsabile europeo dell’Rge, il think-tank dello stesso Roubini, esistono almeno due forme: «L’acquisto di titoli di Stato e l’acquisto dei prestiti a famiglie e imprese cartolarizzati. Vuol dire che le banche prestano soldi ai clienti minori, poi li impacchettano in titoli strutturati e più cospicui e li cedono alla Bce. Qui c’è il nodo politico: bisogna convincere i tedeschi che i prestiti provenienti dai Paesi periferici così cartolarizzati non sono necessariamente a rischio e quindi non si sconfina in quello che si chiama in gergo “credit easing”, un pericolo che da sempre fa venire l’orticaria alla Germania» [Eugenio Occorsio, la Repubblica 5/4].
Non tutti si rendono conto che, se il calo del differenziale BTP/BUND si accompagna ad una consistente riduzione del tasso di inflazione (come sta avvenendo), il peso reale del debito rimane uguale. Ma allora la riduzione dell’ammontare degli interessi che lo Stato Italiano dovrà pagare per il servizio del debito (che deriva dalla riduzione dello spread) diventa un fatto puramente numerico. Per capire il ragionamento proviamo a rappresentare il debito pubblico in quantità di pane, carne, benzina o latte anziché in euro. Se i prezzi calano e l’euro si rivaluta aumenterà la quantità di “sacrificio reale” ovvero la quantità di pane, carne, benzina o latte necessaria per ripagare il debito in natura. E allora, forse, l’austerity di Monti, di Letta e della Merkel la pagheremo cara. Altro che riduzione del debito pubblico! Ci ritroveremo addosso un debito minore dal punto di vista numerico, ma più faticoso da ripagare con il nostro lavoro [www.agoravox.it].
Hanno parlato di nuovo, «ampiamente» di tutto, un tasso negativo sui depositi per tenere a distanza le banche che vogliono parcheggiare soldi presso la Bce, una nuova iniezione di liquidità a lungo termine come quella che al culmine della crisi preservò il sistema da una paralisi totale del credito, un taglio dei tassi di riferimento dall’attuale minimo storico di 0,25 punti base, persino una mossa all’americana, un acquisto massiccio di titoli privati e pubblici, il cosiddetto “quantitative easing”. Ma alla fine, ancora una volta, la Bce ha deciso di non decidere nulla. E quando una giornalista ha chiesto a Mario Draghi quale sia la sua opzione preferita, lui le ha regalato l’unico sorriso della conferenza stampa per poi ribadire che è il consiglio a decidere, non lui [Tonia Mastrobuoni, La Stampa 4/4].
Ma da qui ad attivarla subito, naturalmente, ce ne passa. Anche perché non è facile, fanno sapere a microfoni spenti dall’Eurotower, scegliere la tipologia di bond da comprare. E in particolare su quelli di Stato, si sa che le riserve dei tedeschi, ma anche di altri Paesi nordici, sono pesanti. A convincere anche la Bundesbank a ricredersi sull’acquisto di titoli in massa ha contribuito una dinamica dell’inflazione che continua ad essere peggiore del previsto [Tonia Mastrobuoni, La Stampa 4/4].
Secondo BnpParibas il via libera agli acquisti dei titoli è probabile «nella seconda metà dell’anno» [Tonia Mastrobuoni, La Stampa 4/4].
Il Consiglio Direttivo ha dunque discusso a lungo e ha deciso di aspettare nuovi dati nei prossimi mesi. E’ stato però unanime nell’affermare che, se si confermasse la frenata dei prezzi, la Bce è pronta a creare ulteriore liquidità, ad abbassare ulteriormente i tassi di interesse, fino a considerare tassi negativi sui depositi presso la Bce, a organizzare prestiti straordinari alle banche e acquisti di titoli, anche privati [Franco Bruni, La Stampa 4/4].
La vera deflazione arriva quando i mercati cominciano ad attendersi che nel medio periodo, fra i tre e i cinque anni, si diffonda nell’area una netta discesa degli indici dei prezzi. Allora chi compra e investe rinvia molto le sue spese, frenando ancor più i prezzi, in un circolo vizioso, contraendo la domanda, l’attività economica e l’occupazione. Attendersi prezzi durevolmente in discesa aumenta inoltre l’onere reale di chi è indebitato. E’ anche pericoloso che il cambio dell’euro rimanga troppo a lungo troppo forte: la Bce farà attenzione a che questo, riducendo i costi delle importazioni, non accentui il ribasso dei prezzi [Franco Bruni, La Stampa 4/4].
D’altro canto, se la Bce decidesse di intervenire con eccezionali provvedimenti espansivi, rimane il problema della loro efficacia, che potrebbe rivelarsi limitata, per almeno due ragioni. La prima è che parte dell’andamento dei prezzi è determinato da fattori globali, irrimediabili da politiche europee. In proposito Draghi ha ricordato che il 70% della riduzione dell’inflazione negli ultimi due anni è attribuibile alla frenata mondiale dei costi delle materie prime e dell’energia [Franco Bruni, La Stampa 4/4].
La seconda difficoltà nel combattere la deflazione europea con la politica monetaria è che, a differenza degli Usa, nell’eurozona le banche sono protagoniste assolute del mercato del credito, mentre oltre Atlantico le imprese ricorrono molto di più al finanziamento diretto in titoli. Comprando quei titoli la Fed può diffondere più facilmente la liquidità in tutta l’economia. La Bce deve invece passare dalle banche, dove la liquidità può fermarsi, per varie ragioni, compresa l’imperfetta salute dei bilanci bancari e la loro conseguente ritrosia a prestare [Franco Bruni, La Stampa 4/4].
Dal punto di vista italiano c’è una ragione speciale per sperare che l’inflazione torni a salire. La ragione è che dobbiamo ridurre rapidamente l’enorme e insostenibile rapporto fra debito pubblico e Pil. Anche se azzeriamo il deficit pubblico, tenendo così fermo lo stock di debito, il rapporto non scende se non sale il Pil. Il quale ha due componenti: la crescita reale e l’inflazione. La prima per qualche anno non potrà brillare, visto il difficile riordino generale della politica e dell’economia al quale dobbiamo procedere per tornare a crescere davvero. Serve dunque un po’ di inflazione per aiutare l’aumento del denominatore del rapporto. Se in uno o due anni portassimo la crescita reale un poco sopra l’1% e l’inflazione (italiana) salisse un po’ sopra il 2%, non servirebbero manovre straordinarie sul deficit per far scendere il rapporto debito/Pil, come ci siamo impegnati con l’Europa e come comunque ci conviene [Franco Bruni, La Stampa 4/4].
Lagarde però non è stata la sola a mettere pressione sulla Bce nell’ultimo mese. I prezzi in area euro crescono a marzo a un ritmo annuale dello 0,5%, in continua frenata. Dinamiche del genere rischiano di scoraggiare i privati dai consumi o degli investimenti e ieri Draghi stesso ha sottolineato che è più difficile ridurre i debiti, quando l’inflazione è così bassa. Per la prima volta, il presidente della Bce ieri ha parlato in un modo che sarebbe stato impensabile con i predecessori Wim Duisenberg o Jean-Claude Trichet. Lo ha fatto quando ha confessato che la sua «paura più grande»: essa «è già diventata realtà in una certa misura ed è una stagnazione protratta, più a lungo di quanto abbiamo nelle nostre previsioni». In uno stallo dell’economia e dei prezzi di questo tipo, ha continuato il presidente della Bce, la disoccupazione «diventa più difficile da ridurre, o da ridurre misure convenzionali» [Federico Fubini, la Repubblica 4/4].
Mai in passato un presidente dell’Eurotower era arrivato così vicino alla visione americana, che con le mosse della banca centrale cerca di sostenere anche l’occupazione. Per la prima volta Draghi ha anche detto esplicitamente che fra queste misure «non convenzionali » ci sono anche possibili acquisti di titoli sul mercato da parte della Bce. Il banchiere centrale ha fatto capire, se sarà il caso, guarda più a portafogli compositi di obbligazioni private (di banche o imprese) che a titoli di Stato: il cosiddetto quantitative easing sembrava impensabile fino a pochi mesi fa e lo stesso Draghi ha detto ieri che fino a un mese fa il consiglio direttivo della Bce non ne aveva parlato [Federico Fubini, la Repubblica 4/4].
A marzo l’inflazione del l’area euro è scesa allo 0,5% su base annua. Con debiti e mutui fissi in valore nominale, una deflazione aumenta il peso reale del debito. Una inflazione così bassa (o peggio una deflazione) riduce anche i benefici che l’Italia può trarre da una caduta dello spread. La sostenibilità del nostro debito è determinata dalla differenza tra il tasso di interesse reale pagato sui titoli del debito pubblico e il tasso di crescita reale del Pil. Con un’inflazione allo 0,5%, il tasso di interesse reale sui titoli del nostro debito pubblico rimane al 2,8%, di gran lunga superiore al nostro tasso di crescita reale (se siamo fortunati uno 0,5%) [Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 2/4].
Può sembrare strano parlare di politica monetaria restrittiva, quando il tasso di interesse che la Bce pratica sui prestiti è un misero 0,25%. Ma il tasso sui prestiti è un input della politica monetaria, non l’outcome. E l’outcome è lungi dall’essere espansivo. L’aggregato monetario più ampio (M3) è cresciuto solo dell’1,2% negli ultimi tre mesi: non abbastanza per sostenere un tasso di inflazione del 2%. Contemporaneamente i prestiti al settore privato nell’Eurozona sono scesi del 2,3% negli ultimi 3 mesi. Il problema non è tanto che i tassi della Bce sono troppo elevati, ma che il meccanismo di trasmissione della politica monetaria (ovvero il settore bancario) è in difficoltà [Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 2/4].
L’altra possibilità è quella di ricorrere a qualche forma di quantitative easing, ovvero di acquisti di titoli da parte della banca centrale. Ma questo pone un grosso problema alla Bce: che titoli comprare? Negli Stati Uniti la Fed ha comprato titoli di Stato o con garanzia statale. In Europa, però, di Stati ce ne sono molti e non tutti con uguale affidabilità. La Bce comprerà titoli greci o italiani? Dal punto di vista tedesco, potrebbe essere un pericoloso precedente per ulteriori aiuti della banca centrale ai Paesi in difficoltà, aiuti che tolgono la pressione per le riforme. L’altra possibilità è che la Bce compri titoli di alta qualità emessi dal settore privato [Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 2/4].
Purtroppo l’Italia non è nella posizione di avvantaggiarsi molto di una simile manovra. Gli acquisti dovranno essere limitati a titoli di alta qualità. Noi non abbiamo molte imprese che emettono titoli e ancora meno imprese che emettono titoli con un rating elevato. Un quantitative easing di questo tipo finirebbe quindi per penalizzarci a dismisura rispetto agli altri Paesi [Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 2/4].
Con un’inflazione vicina a zero, in Italia è ora allo 0,4%, e una crescita potenziale a livelli simili, adempiere agli impegni di riduzione del debito pubblico italiano non è possibile. Nei primi due anni, per esempio, sarebbero necessari surplus primari pari a un totale del 5% del Pil in più del previsto. L’esperienza del 2011-2012 in Grecia e in Italia ha dimostrato che correzioni di bilancio molto rapide e di dimensioni superiori al 4% hanno effetti controproducenti. A seguito dell’aumento delle tasse e dei tagli alle spese, il Pil scende e il debito aumenta ulteriormente e tutto ricomincia da capo in condizioni peggiori. Quando questo avviene, gli inasprimenti fiscali vengono percepiti come permanenti e non più come transitori, così imprese e famiglie riducono investimenti e consumi, aggravando ancora la recessione [Federico Fubini, la Repubblica 1/4].
Sembra paradossale parlare di scenari così preoccupanti in giorni in cui affluiscono grandi quantità di capitali verso l’area euro, arrivando finalmente anche in Italia. I titoli pubblici vengono collocati facilmente e lo spread scende, ma c’è qualcosa di spietato nell’algebra, come nella forza di gravità, bisogna vivere su un altro pianeta per far finta che non esista. Infatti l’afflusso di capitali rafforza l’euro, i beni importati costano meno e ciò accentua la disinflazione [Federico Fubini, la Repubblica 1/4].
Se non verrà contrastata in fretta la minaccia di una caduta dei prezzi, alle condizioni di oggi l’Italia sarà presto costretta a trovare dieci-quindici miliardi l’anno di tasse o tagli di spesa in più (su base permanente) per rispettare il Fiscal Compact europeo.
Se suona paradossale, forse è perché non corrono tempi ordinari. Ad accezione dei mesi seguiti alla caduta di Lehman Brothers, non era mai successo nell’Europa del dopoguerra che l’indice generali dei prezzi cadesse a questa velocità. All’inizio del 2013 l’inflazione della zona euro era attorno al 2%, praticamente in linea con l’obiettivo di stabilità dei prezzi che la Bce è stata creata per assicurare. Ancora un anno fa l’inflazione dell’area viaggiava all’1,7%, mentre l’Italia era appena al di sotto. Avanti veloce di dodici mesi e il panorama diventa irriconoscibile: a marzo il valore è crollato allo 0,5% in Eurolandia e allo 0,4% in Italia. Cinque Paesi su diciotto — Slovacchia, Portogallo, Grecia, Cipro e adesso anche la Spagna — sono già scivolati in deflazione: invece di salire i prezzi scendono, rallentando consumi e investimenti perché le famiglie e le imprese rinviano ogni spesa nell’idea che domani costerà di meno. Sull’Europa sembra scendere la stessa cappa che per tanti anni ha cloroformizzato l’economia giapponese [Federico Fubini, la Repubblica 1/4].
Durante questo ultimo anno, per la verità, la Bce non è rimasta con le mani in mano. Ha tagliato i tassi di 0,25% a maggio scorso, poi ha replicato in novembre. A luglio nel frattempo aveva anche promesso che il costo del denaro non sarebbe più salito per molto tempo a venire, senza precisare per quanto. Oggi il tasso principale al quale le banche commerciali europee prendono in prestito il denaro presso gli sportelli dell’Eurotower è allo 0,25%, un minimo che né la Bundesbank, né la Banca d’Italia avevano mai esplorato. Purtroppo però l’inflazione si è mossa più in fretta della Bce, nella direzione sbagliata. La caduta del costo del denaro è stata di 0,5% in dodici mesi, ma quella dell’indice dei prezzi è stata dell’1,2%. Con le sue ultime stime dello staff, l’Eurotower ha informato che fallirà al ribasso il suo obiettivo di stabilità dei prezzi (aumento del costo della vita vicino ma sotto al 2%) per quattro anni di seguito. Ammesso che sia possibile vedere così lontano, Francoforte dice che forse solo alla fine del 2016 l’indice dei prezzi tornerà dove dovrebbe già stare. Come nella depressione degli anni ‘30, queste sono ottime notizie per chi vive di rendita, perché l’inflazione non erode un capitale investito. Ma sono terribili notizie per chi ha un debito: i tassi d’interesse tendono a farlo aumentare di continuo, mentre il carovita controbilancia erodendone il valore reale e rendendo più facile ripagarlo in euro un po’ inflazionati [Federico Fubini, la Repubblica 1/4].
Il caso del debito pubblico italiano è probabilmente quello più rilevante. Ogni anno il Tesoro emette oltre 450 miliardi di nuovi bond per finanziarsi, pagando in media un interesse vicino a quello di un Btp a cinque anni. Il rendimento di quel titolo è sceso, dal 2,8% di un anno fa all’1,9% di ieri sera. Nel frattempo però l’inflazione è scesa di più, dunque il costo di ogni euro di nuovo debito pubblico dell’Italia sale in termini reali anche quando lo spread fra Bund tedeschi e Btp scende. Per ogni euro degli oltre duemila miliardi di vecchio debito pubblico l’onere da bassa inflazione poi è ancora più forte, perché i tassi d’interesse sui vecchi titoli sono più alti. In queste condizioni il debito pubblico non scenderà mai. Proiettando l’inflazione, la crescita, le cedole su Bot o Btp e il surplus di bilancio di oggi fra vent’anni, la situazione diverrebbe insostenibile: il debito pubblico sarebbe al 148% e in aumento. Invece con un’inflazione anche com’era un anno fa, il debito sarebbe di quasi 30 punti più basso e in calo [Federico Fubini, la Repubblica 1/4].
È l’esatto contrario dell’inflazione. Anziché salire, i prezzi scendono.
Si direbbe che è un fatto positivo per chi fa la spesa tutti i giorni. È così?
Sulle prime la deflazione potrebbe sorprendere positivamente chi va al supermercato, in quanto mese dopo mese si trova a pagare di meno la spesa. Ma le conseguenze sono pesanti. Le aziende produttrici si ritrovano con ricavi e redditività in calo. Il rischio è che reagiscano tagliando produzione e occupazione. Dunque i salari. Così anche se le famiglie pagano meno la spesa alla lunga si possono ritrovare con un reddito inferiore o addirittura senza più un reddito. Dunque ridurranno ulteriormente gli acquisti [Francesco Spini, La Stampa 4/4].
Cosa succede invece per gli investimenti?
In un clima di deflazione le Borse beneficiano dei tassi in calo ma alla lunga subiscono la stagnazione dell’economia e la caduta dei profitti. Discorso diverso per le obbligazioni: gli investitori, in quanto creditori, possono godere di rendimenti reali più elevati oltre ad apprezzamenti in conto capitale con ulteriori cali dei tassi di interesse [Francesco Spini, La Stampa 4/4].