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 2014  aprile 04 Venerdì calendario

C’è qualcosa di liberatorio, nel nuovo corso renziano. Fino a ieri l’Italia era attraversata da un incredibile numero di dogmi, pregiudizi, miti, feticci, totem e tabù

C’è qualcosa di liberatorio, nel nuovo corso renziano. Fino a ieri l’Italia era attraversata da un incredibile numero di dogmi, pregiudizi, miti, feticci, totem e tabù. C’erano cose che, specie negli ambienti progressisti, non si potevano dire (e spesso non si osavano neppure pensare), pena l’immediata squalifica. Quante volte mi sono sentito dire: ma questo è quel che pensa Berlusconi, se scrivi questo fai il gioco della destra. Oggi non più. Renzi e i suoi stanno demolendo uno dopo l’altro i feticci della cultura di sinistra, e ci riescono benissimo per almeno due ragioni. La prima è che erano dei bambini, o addirittura non erano ancora nati, quando quei feticci furono eretti a baluardo del mondo progressista, e dunque non sentono alcun timore reverenziale per i maestri o presunti tali, di cui spesso nulla sembrano aver letto o studiato. La seconda ragione è che sono gli italiani stessi che, di certi feticci e di certi personaggi, non ne possono più, perché li vedono come concause o coartefici del presente disastro.
Renzi è un rabdomante, e ha fiutato il clima del paese. Ha capito che oggi si possono dire e fare cose impensabili fino a pochi anni fa (in questo aiutato dall’istinto conformistico dei media, che si sono immediatamente allineati al novello principe). Si possono criticare i sindacati, si possono stigmatizzare i disoccupati che cumulano sussidio e lavoro nero, si può tagliare la spesa pubblica per ridurre le tasse, si può parlare di flessibilità sul mercato del lavoro, si può criticare la magistratura (vedi la ferma difesa dei politici «solo» indagati), si può dare dei «professoroni» ai vati della cultura progressista. E infine, eresia massima: si può essere d’accordo con Berlusconi su alcune cose, e comunicare in modo ancora più berlusconiano di lui.
Il verbo renziano ammalia il popolo di sinistra, stanco della vecchia guardia e da sempre addestrato ad adeguarsi, e non lascia indifferente il popolo di destra, deluso da Berlusconi e compiaciuto che molti dei propri sogni siano entrati nell’agenda del nuovo premier. Si potrebbe pensare che, alla base del successo di Renzi, vi sia prima di tutto la sfiducia nella casta che ha retto il paese fin qui. Ma questo è vero solo fino a un certo punto. Chi non ne può più del Palazzo e della classe dirigente, più che a Renzi tende a guardare a Grillo. Il consenso di cui gode Renzi ha una base più profonda, anche se forse non del tutto consapevole. Quel che con Renzi viene finalmente al pettine è il nodo del conservatorismo italiano, una sindrome che affligge il paese da almeno trent’anni e che ha caratterizzato, ormai possiamo dirlo, non solo la destra (da cui forse ce l’aspettiamo di più) ma anche la sinistra. Un conservatorismo che ha bloccato il paese sia sul terreno delle regole sia su quello delle grandi riforme economico-sociali. Mentre grandi paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Germania, sia pure con metodi e tempi diversi, attuavano le riforme radicali di cui avevano bisogno, e anche per questa via modernizzavano la sinistra (si pensi a Clinton, Blair e Schroeder), l’Italia si baloccava tra una rivoluzione tradita (quella liberale di Berlusconi) e un riformismo mai veramente decollato (quello dell’Ulivo di Prodi). È innanzitutto per questo, perché siamo indietro di un quarto di secolo, e non per ignoranza o giovanile spensieratezza che il ministro Maria Elena Boschi può oggi permettersi di polemizzare con i venerati maestri alla Rodotà, fino a spingersi a dire che in questi trent’anni «le continue prese di posizione dei professori» hanno «bloccato un processo di riforma che oggi invece non è più rinviabile per il nostro paese».
Naturalmente non è così, il ministro sopravvaluta ampiamente il potere dei professori. E tuttavia c’è anche del vero, nell’incauta e semplicistica affermazione del ministro delle Riforme. È vero, ad esempio, che l’incapacità della sinistra di rinnovarsi e di uscire dalla trappola dell’antiberlusconismo, un’incapacità di cui il primo responsabile è il ceto politico, è stata spesso, molto spesso, alimentata e ingigantita non già dai professori in quanto tali, ma da una élite di intellettuali in senso lato. Una élite progressista fatta di professori, scrittori, magistrati, registi, artisti, comici, attori, giornalisti, intimamente convinti della propria superiorità morale e civile, e irresistibilmente attratti dall’idea che il proprio compito, anzi la propria missione, non sia semplicemente di far bene il proprio mestiere, bensì di insegnare al paese come vivere e che cosa pensare. Un magistero, quello dei venerati maestri (così li chiamava il compianto Edmondo Berselli), che effettivamente ha finito per inchiodare la sinistra ai suoi miti e ai suoi riti, con un danno incalcolabile per il paese non meno che per la sinistra stessa. Già, perché una cosa bisognerà pur dirla una buona volta: se oggi l’Italia è un paese profondamente diseguale, con una frattura abissale fra garantiti e non garantiti, con i giovani e le donne sistematicamente tenuti ai margini del mercato del lavoro, con uno Stato sociale dispensatore di privilegi e avaro di servizi, è anche perché per decenni ci siamo tenuti questa sinistra, miope e conservatrice.
Da questo punto di vista Renzi e i suoi hanno ragioni da vendere. Dove invece, a mio parere, stanno prendendo un abbaglio è quando, parlando genericamente di professori, non colgono la differenza fra l’élite degli intellettuali, che parlano il linguaggio della certezza e della superiorità morale, e la massa degli studiosi, che parlano il linguaggio del dubbio e della ricerca, e non amano arringare le folle. Fra questi ultimi, siano essi economisti, politologi, sociologi o giuristi, da almeno vent’anni le posizioni che dominano la scena parlano di modernizzazione, di cambiamento, di riforme radicali, non certo di conservazione del patrimonio e delle conquiste irrinunciabili della sinistra. Dalla commissione Onofri (1997) alla commissione Muraro (2007), per citare solo due esperienze significative, il mondo degli studiosi è più che mai schierato dalla parte del cambiamento, e immune da ogni rimpianto per la sinistra che fu.
Ecco perché il nodo dei «professori» è delicato. Ci sono professori di tipo-vate (gli intellettuali, o venerati maestri), e professori di tipo-Archimede (gli studiosi, gli esperti). Entrambi non hanno un rapporto del tutto armonico con Renzi. La differenza cruciale, però, è che i primi temono che Renzi abbia successo, i secondi che fallisca. I primi diffidano delle idee di Renzi, i secondi dubitano della sua capacità di metterle in atto.
Quel che accomuna profondamente i due tipi è il desiderio di essere ascoltati dal principe. I professori-guru non si capacitano che la politica abbia smesso di riconoscere il loro ruolo di guida morale e spirituale. I professori-esperto si stupiscono che la politica paia non aver bisogno del loro supporto tecnico e di conoscenza. Gli uni vorrebbero indicare al principe i fini dell’azione politica, gli altri mettergli a disposizione i mezzi per realizzarli.
La mia sensazione è che entrambi si illudano. La politica è per sua natura autoreferenziale, Renzi o non Renzi. Può fingere di ascoltare i venerati maestri (come faceva in passato), ma alla fine tira dritto per la sua strada. Può avere bisogno degli esperti, ma solo quando è con l’acqua alla gola, e comunque sempre e solo dei «suoi» esperti. In questo, le cose non sono molto cambiate, semmai sono diventate più chiare. Gli intellettuali e i tecnici, i maestri e gli specialisti, la politica li ha sempre usati, ma non li ha mai ascoltati davvero (e qualche volta è stato un bene). Solo un grande narcisismo, e una certa dose di ingenuità, possono far credere ai professori che il loro ruolo possa cambiare.