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 2014  aprile 04 Venerdì calendario

Lungo le vie segrete del Sahara fra Al Qaeda, santoni e disperati I tuareg trasportano la merce per migliaia di km pagando il pizzo ai jihadisti Domenico Quirico Nelle valli calde del nord del Niger, verso il confine con Libia e Algeria, il sole è triste, triste come un grande abbaglio che cada dal cielo

Lungo le vie segrete del Sahara fra Al Qaeda, santoni e disperati I tuareg trasportano la merce per migliaia di km pagando il pizzo ai jihadisti Domenico Quirico Nelle valli calde del nord del Niger, verso il confine con Libia e Algeria, il sole è triste, triste come un grande abbaglio che cada dal cielo. Sulla sabbia che luccica gli occhi stanchi seguono le ombre del pick-up in cammino e quando li si rivolge verso le montagne lontane sembrano nere a confronto con lo splendore delle sabbie vicine. Da ogni lato si scoprono nuovi spazi e l’impressione del deserto diventa ancor più angosciante a causa della affermazione visibile della sua immensità. In lontananze così limpide, che si direbbero più profonde delle abituali lontananze terrestri, catene di montagne si allacciano e si sovrappongono con contorni nitidi e duri che le lusinghe effimere di foreste cespugli erbe non hanno mai attenuato. Lo splendore della materia quasi eterna. È là che i tuareg mi fecero incontrare i «corrieri». Tuareg anche loro, ma che erano entrati nel «business». Ovvero portavano la droga. Non c’era ancora la guerra nel deserto, i francesi e i loro alleati africani contro Al Qaeda. La Grande Pista era aperta, incontravi convogli senza immatricolazioni, guardati da armati dai volti nascosti, enigmatici e misteriosi. Mi mostrarono i posti tappa: dove accuratamente celati in vecchi pozzi disseccati, in tombe immemorabili, invisibili anche all’occhio più esperto, erano pronti i rifornimenti di benzina e di acqua. Certo, non erano più i tempi spettacolari di «air cocaine». Quando i fornitori colombiani facevano atterrare nel deserto i Boeing 727 carichi di stupefacenti. Un aeroporto avevano costruito nelle sabbie di Sinkrébaka, a Nord di Gao! Ora c’erano le spedizioni regolari con le colonne di pick-up, sulle carovaniere dove un tempo passavano il sale e l’oro, da un mare a un altro mare. A Gao, stipata nei depositi accanto all’acqua grigia del Niger, «la farina», la chiamano così i riveriti «commercianti» maliani, attendeva l’ultimo balzo attraverso il deserto. E sì che c’era già Al Qaeda nel Sahara: una tangente in più da pagare, da aggiungere alle guide tuareg, ai funzionari, ai poliziotti e ai soldati di almeno tre eserciti per titillarne la scarsa onestà. Ma un chilo di coca rendeva così tanto… «Bisogna viaggiare in fretta con “la farina”; voi europei siete impazienti, non potete farne a meno e pagate bene, benissimo», sghignazzavano i corrieri con una allegria interna che brilla negli occhi e vuol pure sfogarsi in una fregata di mani lesta e sorniona. Il tramonto ci era attorno, l’oro sembrava essersi rovesciato per noi soli sul piccolo campo solitario. I pick-up con il loro carico sciagurato e prezioso erano orlati d’oro, il deserto intero era d’oro, i cespugli e le pietre. Poi venne la notte con il suo silenzio. E i racconti, come sempre nel deserto: il Grande Viaggio della droga. Tre anni dopo ho ritrovato quei racconti leggendo un’inchiesta, appena chiusa con successo, e lunga, paziente, complessa, affascinante come un romanzo, del Nucleo investigativo dei carabinieri di Torino. Aveva ragione Zola: bisogna leggere i verbali giudiziari, sono straordinarie illuminazioni sulla vita vera, gli uomini vi compaiono senza mediazioni, sfumature, illusioni. Vivi: implacabilmente. Vertiginosa incursione in un mondo che respira accanto a noi, nelle città d’Europa, che si nutre dei nostri vizi e se ne arricchisce disprezzandoci, maneggiando le nostre lordure senza usarle per sé, solo per indebolirci. Io non lo sapevo ancora ma nel deserto, tre anni fa, incrociai quasi certamente le merci milionarie e illegali di Mohamed Traoré, il maliano. La droga che ho visto, alla fine del viaggio, alimentava lo spaccio a Torino: e in Spagna, Germania, Portogallo, Francia, Svizzera. Traoré è un songhai; i carabinieri lo hanno scoperto quando hanno decifrato il dialetto misterioso con cui trattava i suoi affari lerci, dalla Spagna dove viveva, al Mali e in tutta Europa. Una accortezza in più contro le intercettazioni, il dialetto songhai. Nel Cinquecento era la lingua di un grande impero che andava dal Benin all’Atlantico, da Djenné alle miniere di sale di Teghaza. L’Askia Mohamed fu il primo africano a ottenere il titolo di comandante dei credenti: quando partì per il pellegrinaggio alla casa di Dio, anno dell’egira 902, nel mese di safar, si portò dietro, sontuosamente, per fare elemosina, trecentomila «mithqal», una tonnellata di oro. È difficile afferrare con le dita, nelle pagine dell’inchiesta, Traoré: scivola via, maneggia milioni e parla di banalità, è opaco, subdolamente neutro. La grande via africana della droga, in fondo, è una storia di clan, di villaggi, di africanità: fanno viaggiare stupefacenti e milioni di euro attraverso il Mediterraneo, le montagne i deserti, usano internet, i telefoni satellitari e poi restano legati ai loro riti. Gregari e capi consultano il marabutto prima di un viaggio o di un contratto, portano tutti al collo i gri gri, gli amuleti, un borsellino con dentro versetti del Corano, foglie, pezzi di osso, sabbia. Preservano da tutti i mali, ma non dalla morte come mi disse un santone a Dakar «perché la morte non è un male». Pregano da buoni musulmani, con fervore: «non ho risposto al telefono, ero alla moschea...»; una donna a Bamako chiamata da Traoré gli annuncia che ucciderà il montone e farà festa perché «il lavoro è andato bene... i vicini mi invidiano perché vedono la bella casa e vestiti e sanno che i soldi arrivano da te che hai fatto fortuna in Europa...», andrà a pregare il favore di dio nella grande liturgia del venerdì «dove c’è più gente… mi piacerebbe aprire un negozio…» lo tenta sorniona... C’è un mondo del delitto ed essi vi restano dentro come entro un tepore. L’inchiesta racconta come in Italia, in Europa, non si mescolino, non abbiano alcuna curiosità per il mondo che sta loro intorno: dormono di giorno stipati in alloggi fatiscenti («l’unico requisito, obbligatorio, è la porta blindata per complicare l’irruzione della polizia») e spacciano di notte, vogliono solo far soldi, in fretta, da mandare a casa, e tornare non più come manovali, spacciatori di strada, dell’Organizzazione (cento solo a Torino!) ma come importatori, grossisti e capi. Lo spaccio come un putrido mestiere, laido tran tran. Poi di colpo guizzano lampi di ferocia, di sangue, di terrore. Perché i guai di Traoré sono iniziati con la confessione di un piccolo spacciatore di strada senegalese finito in prigione. Un dettaglio, una crepa quasi invisibile. Aveva infranto la legge dell’Organizzazione, aveva rubato una parte degli stupefacenti. Sapeva di non avere scampo. Per scoprire il suo nascondiglio hanno torturato e ucciso a Dakar suo padre e poi mutilato una sorella. Solo confessare poteva salvarlo. Il velo si è alzato per la prima volta. «Una organizzazione fortemente strutturata e gerarchizzata… dall’approvvigionamento in Africa alla distribuzione capace di resistere agli eventi che la colpiscono... di grande pericolo sociale perché risulta sostanzialmente stabile». La cocaina che arriva in Africa, in Senegal, costa già cara per la sua elevata purezza: 44 mila euro al chilo. Con tagli ripetuti, in Europa la vendono a cento euro al grammo. Milioni di euro a cui erano addetti come formiche piccoli spacciatori di strada: sognano di far carriera, con l’astuzia la tenacia la violenza, nell’Organizzazione non si ci sono gradi fissi, si può avere successo come in una azienda capitalista. In una intercettazione uno dei capi parla con un’aspirante recluta: «Vieni, ti faccio vedere la strada per fare soldi… con tre viaggi sei a posto, io faccio così: compro la roba e poi la dò a qualcuno che la porta per me… devi fare soldi perché qui in Senegal se non hai soldi non conti niente… devi fare come me che non ho paura di niente…». A tre ore di volo da noi nascono così i narco-stati dell’Africa. Al Qaeda, la guerra nel deserto sono piccole tempeste, portano solo il fastidio di cercare nuove rotte, altri complici: «In Mali è tutto un casino colpa dei militari… a Timbuctu non si può più vivere, ci sono gli islamisti che si son messi a fare anche i doganieri , tutta la nostra rete è messa in difficoltà…». Allora con i guadagni si comprano armi, mettere a rispetto i gruppi rivali, controllare le vie del deserto. Un altro luogo: Dakar, il porto di arrivo dal Sud America. I moli sepolti sotto dune di merce come dune di sabbia accumulata dal vento, odore di colla in ebollizione, è rimasta attaccata alle cose anche se ormai non si incide più il verek, le acacia che produce lacrime di gomma; stormi di uccelli neri volano da una duna all’altra, si posano e piluccano. Dakar: città sogno, un po’ Napoli e un po’ Marsiglia, con i quartieri della miseria, le sinistre bidonvilles dove sfumano i suoi colori pastello. In Senegal ci sono decine di villaggi come Khambala dove gli inquirenti sono andati a cercare le tracce di uno dei capi del traffico, un villaggio rurale dove sono infisse ville da 50 milioni di franchi Cfa. I ragazzi per strada che sognano di fare gli ovulatori, corrieri che inghiottono confezioni di 10 grammi di droga e poi prendono il volo per Milano, raccontano agli investigatori che le ville appartengono agli emigranti tornati dall’Italia, gli arricchiti con lo spaccio. E hanno investito nell’immobiliare. Mohamed Traoré è stato arrestato a Barcellona il 12 febbraio: è in attesa di estradizione in Italia.