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 2014  aprile 04 Venerdì calendario

L’ANIMA DEL LEGNO TRA LE RIGHE DI UN CAPOLAVORO


«Secondo lei, questa scrivania è rinascimentale o messicana?», aveva chiesto speranzoso Lévi-Strauss seduto dietro un tavolo scolpito. Purtroppo era evidentemente messicana, ma l’antropologo aveva accettato l’ipotesi con rassegnazione. «Lo sospettavo anch’io».
Semplice o lussuosa, la scrivania riveste un’importanza fondamentale per chi scrive, come se il procedimento della creazione lasciasse un’eco in quel legno altrimenti simile a tanti altri. Prima di iniziare a scrivere su una sgraziata scrivania di mogano, Joyce arrotolava il copritavolo di peluche, per non sciuparlo. «Davanti a un tavolo straniero, scrivere è ancora più difficile», si lamentava Cechov in albergo.
La semplicità e la modestia tentano di addomesticare l’angoscia della creazione. Era stato il più sofisticato dei poeti, Mallarmé, a fabbricare personalmente la sua scrivania su cui, sotto un pesante fermacarte, sostavano, in attesa di essere vagliati, fasci di foglietti con scarabocchiati i versi che gli venivano in mente durante il giorno. Sul tavolo da cucina che serviva da scrivania a Greene, c’erano solo un blocco di fogli bianchi e cinque matite appuntite allineate; poco lontano una bottiglia di gin e un bicchiere. A George Sand bastava una modesta scrivania di legno chiaro, opera di un artigiano locale, per stendere le quasi quaranta pagine quotidiane. Il rustico mobile si protendeva in una serie di scaffali su cui sostavano i libri del momento insieme a fossili e minerali delle collezioni dell’artista.
L’immensa Commedia umana era nata su un piccolo tavolo da lavoro lucidato dal tempo, «testimone dei pensieri, delle angosce, delle miserie, degli sconforti, delle gioie, di tutto!». Solo nel 1846 Balzac poté avere il maestoso candelabro “da ministro” in bronzo dorato che sognava da tanto. In un angolo lo aspettava la celebre caffettiera di porcellana bianca e blu con l’abusiva corona dei Balzac d’Entragues. Sotto lo stemma della casata si poteva leggere il fatale motto: «Giorno e notte». A chi gli contestava la nobile ascendenza, lo scrittore rispondeva: «Ebbene, tanto peggio per loro!».
Ma la natura può affacciarsi più esplicitamente sulla più astratta delle arti, come il pappagallo impagliato sulla scrivania di Flaubert, che intingeva la penna da un calamaio di bronzo a forma di rospo. O la collezione di farfalle posate sulla scrivania di noce di Gozzano. O il minaccioso bufalo impagliato, memento delle amate corride e della morte nascosta nella natura, posato su quella di Hemingway.

Uccelli, elefanti e maialini. Gli oggetti che sostano sul ripiano sono saturi di implicazioni. Apollinaire teneva sempre sul corto tavolino di un legno modesto qualche oggetto kitsch, come il “terribile” calamaio dorato a forma del Sacré-Coeur, o l’uccello di rame del Benin. Sul panno verde della grande scrivania di betulla di Cechov, due elefantini bianchi e due neri, una scrofa con i maialini di porcellana regalati da Olga, dovevano ricordare al marito dell’attrice che la sua solitudine era solo temporanea. Un piccolo busto di Pietro il Grande e una gondola in miniatura, Pietroburgo e Venezia, presidiavano il tavolo di Brodskij. Tra le carte e i libri, ordinatamente disposti sul vasto tavolo di Zola, spiccavano alcuni soprammobili luccicanti, come il tagliacarte a forma di pugnale che lo scrittore si divertiva a sguainare e ringuainare durante le conversazioni. Reperti archeologici greci, romani o egiziani vegliavano sulle peregrinazioni di Freud nell’inconscio. Ma niente poteva eguagliare l’inquieta aura emanante dalle maschere, dai reperti e dagli strani oggetti che ispiravano le pagine del surrealista Breton.
Ordine e disordine perdono significato sulla scrivania. Flaubert e Freud reagivano ferocemente contro chiunque intervenisse sulla disposizione in cui avevano lasciato carta e penna. Le cartelline spiegazzate piene di manoscritti contrastavano col lucido ripiano di mogano di Wells, illuminato da una pesante lampada verde a forma di tempio mesopotamico. Ma pochi tavoli erano più disordinati di quello di Nietzsche, su cui si affastellavano libri, manoscritti, arnesi da toeletta e gusci d’uovo, quotidiane reliquie della sua dieta. Ad alcuni una sola superficie non basta. Stevenson sognava di avere a disposizione ben cinque tavoli: uno per le carte geografiche, uno per i libri, uno per scrivere, uno per le bozze, e il quinto «tenuto sgombro per l’occorrenza». La Duras lavorava su diversi tavoli, alla quieta luce di lampade a olio trasformate in abat-jours. «Credete che sia facile scrivere, invece è l’inferno».

Belve in gabbia. Le scrivanie di Tolstoj, Gozzano e Woolf erano davanti a finestre aperte sulla vegetazione. «D’innanzi a me, nel quadrato della finestra», scriveva Gozzano, «c’è un tiglio che quest’anno non vuole ingiallire: è ancora intatto tutto verde, come la Speranza; credo che la prima neve lo troverà con tutte le sue foglie. Io e quel tiglio ci somigliamo un poco». Quando il tempo era bello, la Woolf faceva portare in giardino il tavolo ottocentesco su cui scriveva. Ma la natura può trasformarsi anche in una tentatrice. Per non farsi distrarre Maugham aveva oscurato la magnifica vista sul mare davanti alla larga e massiccia scrivania su cui scriveva tre ore al giorno su blocchi di carta San Remo. Non tutti però devono incatenarsi al tavolo come Alfieri. Apollinaire misurava come una belva in gabbia le stanze del piccolo appartamento e Lytton Strachey andava su e giù per lo studio, prima di approdare alla grossa scrivania su cui registrava, già perfettamente formate, le sue frasi. Ma anche la scrivania a rotelle e la sedia girevole di Huxley tradivano l’irrequietezza dello scrittore.
Spesso sulle pareti, di fronte alla scrivania, sostano frasi o oggetti eloquenti, dal cubitale “Non fumare” di Cechov alla maschera mortuaria di Leopardi che rammentava al longevo Gide la brevità della vita.
«Due passioni», sintetizzava Achmatova, «il letto (sognare) - e la scrivania (annotare i sogni) - ovvero: la scrivania (sognare) - e il letto (realizzare i sogni dormendo)».