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 2014  aprile 04 Venerdì calendario

È INIZIATA LA GUERRA DELL’ACQUA

Ogni giorno ti danno le cifre: precipitazioni zero. Previste in settimana: zero. Previste a tre mesi: zero virgola qualcosa. Questa siccità non è destinata a passare; anzi sarà epica, un cataclisma, una guerra civile tra consumatori, banchieri, agricoltori, immigranti messicani e pesci. E la perderanno le ultime due categorie.
È la prima delle «guerre dell’acqua» pronosticate come l’apocalissi del ventunesimo secolo. Ma, invece che svolgersi in un terzo mondo desertificato, tra dittature, campi profughi ed epidemie, sta cominciando nella ricchissima California, la monopolista della frutta e verdura nei supermercati di tutto il mondo.
Due settimane fa, ero in uno sperduto posto che si chiama Los Banos, l’epicentro della siccità. Di questa stagione, le colline dovrebbero essere di un verde psichedelico, ma quest’anno non lo sono; piuttosto è un verde grigiastro. I laghi sono in secca, la terra è luccicante di sale, gli affitta-kajak sono falliti, perché non si pagaia sulla sabbia. Mi sono fermato a un quadrivio, su cui sventola un’enorme bandiera americana, sovrastata da una croce. È un deposito di attrezzi agricoli; il proprietario l’ha riempito di cartelli contro il «comunista Obama», responsabile della crisi. Ed eccolo che arriva, a bordo di un furgoncino, con un cagnolino e un metro cubo di foraggio seccato sul pianale. Si chiama Gary, ed ha una faccia quietamente disperata.
- Gary, secondo lei cosa bisogna fare con questa crisi dell’acqua?
- Ha visto che cosa c’è sopra la bandiera?
- Certo, la croce.
- E allora: non le sembra chiaro? È ora che tutti riprendiamo a metterci in ginocchio e pregare il Signore, perché solo lui ci può salvare. Dovremmo ricordarci che gli imperi vanno in rovina. Roma era un grande impero, ricorda?
Poi Mr. Gary mi porta a vedere le sue bestie. Ha un cammello, due bufali Watussi, un lama, una zebra. «Sono i miei bambini, la mia terapia. Vado in chiesa e poi do loro da mangiare, questo mi calma». Ai suoi bambini, Gary dà il meglio, la famosa alfalfa, il miglior foraggio della terra. Le terre di Gary sono coltivate ad alfalfa, ma se il governo non farà arrivare l’acqua, seccherà tutto. Povero Gary. Ma chi lo mangia questo favoloso foraggio? Non ci crederete, ma viene seccato, imballato e containerizzato; se ne esce sulle navi-grattacielo attraverso il Golden Gate sulla baia di San Francisco, per diventare il cibo delle vacche della Cina o degli Emirati Arabi. Fino a 300 dollari a tonnellata. L’export del 2012 ha fatto quasi un miliardo di dollari e il mercato è previsto in ascesa per i prossimi quindici anni. Se gli dai acqua, l’alfalfa riesce a farti quasi un raccolto al mese. Ma devi dargliene tanta, visto che migliaia di Gary della Central Valley hanno messo ad alfalfa più di un milione di ettari, consumando l’equivalente della portata annua di un grosso fiume come il Po.
Chissà se Gary, quando si mette in ginocchio, ci pensa. Ho il sospetto che non ci pensi. Lui pensa piuttosto che l’acqua è un suo diritto, che il governo ce l’ha nei suoi serbatoi, che basterebbe schiacciare un interruttore. E invece, quei comunisti la danno agli ecologisti, che vogliono salvare i pesci del San Joaquin River.
Il campo di battaglia della guerra appena cominciata sarà in questa pianura, la Central Valley della California. Posto appartato, quasi segreto. Se dici a qualcuno di città, «Vado nella Central Valley», ti guardano costernati: «Ti hanno dato una punizione?». Entri nella valle e le stazioni radio diventano improvvisamente tutte in spagnolo, di musica popolare o religiosa. Da nord a sud si incontrano Stockton (in bancarotta), Fresno (in crescita tumultuosa di popolazione e crimine, sulla rotta dei narcos, settanta etnie differenti nelle scuole elementari), Bakersfield, anonimo niente che però nasconde un segreto nel sottosuolo. Il tutto è un tubo lungo 700 chilometri, largo 80, una superficie comparabile con quella della nostra pianura padana. Ma qui, invece di città, ci sono solo distese infinite di campi, qualche volta anche belli, quando gli alberi da frutta sono in fiore. Ad est, la valle è limitata dalla catena della Sierra Nevada con lo Yosemite Park incastonato come un gioiello. Ad ovest, prima dell’oceano e parallela a lei, c’è la famosissima Silicon Valley. Ma i due mondi non comunicano. Se nella prima valle rombano le Porsche dei ragazzi geni, figli di Steve Jobs, la maggior parte degli abitanti della Central Valley sono contadini messicani, più o meno illegali, che vivono in periferie o grumi di roulottes. Tornano dai campi e comprano dieci litri d’acqua allo spaccio, perché la loro non è potabile. E non c’è nessuna app per eliminare questo scandalo.
La leggenda dice che questa è la terra promessa. È un suolo generoso, ci sputi e nasce un albero. Dopo gli indiani che vi abitavano da millenni, ci vennero i cercatori d’oro che non avevano trovato l’oro. La California era allora uno Stato giovane e spiccio. I cinesi, che avevano costruito la ferrovia, vennero messi, più o meno in condizioni di schiavitù, a bonificare le terre paludose intorno alla baia di San Francisco.
La legge stabilì che ai nuovi coloni venissero assegnati 70 ettari a famiglia.
I messicani fecero da manodopera. Carciofi, broccoli, pomodori, zucchini, cavoli. Il grande Diego Rivera dipinse la California come un’enorme donna ingioiellata che offre i suoi frutti e solleva un contadino messicano stremato sotto un’enorme gerla carica di frutti. Era talmente leggenda, che qui arrivarono i sopravvissuti dell’olocausto armeno, poi il milione di contadini scacciati dalla tempesta di polvere che aveva investito per anni l’Oklahoma e il Texas. (Vedi Furore di Steinbeck; Sia lode ora a uomini di fama, di James Agee e Walker Evans ). Poi arrivarono i Sikh dal Punjab, poi i hmong, addirittura dal Laos. Era una tribù di contadini di montagna, che nella guerra di Indocina si era schierata con gli americani. Alla vittoria dei comunisti, il generale, Vang Pao – che loro chiamano «Garibaldi» – portò il suo popolo negli Stati Uniti, e il governo diede a cinquantamila di loro della terra nella Central Valley.
La California cominciò ad essere la regina del pomodoro, della frutta, dell’uva, così come il cotone era stato il re degli Stati del sud. Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, comparve su queste terre un piccolo e magro contadino messicano, César Chávez, che formò il primo sindacato di contadini. Sfilavano in corteo preceduti dallo stendardo della Virgen de Guadalupe, scandivano: Sí, se puede, intendendo i salari dei braccianti. Chávez, cattolico gandhiano e vegetariano, digiunò ad oltranza contro l’uso dei pesticidi nelle vigne. Oggi Chávez è un eroe nazionale, ci sono i francobolli con la sua faccia, ma le sue idee non hanno vinto. Né quella di trattare bene i braccianti, né quella di non uccidere la natura con la chimica. Piuttosto ha vinto l’opposto. Nel paesaggio, il contadino appare come un’ombra dietro la fantasmagorica macchina agricola da 500 mila dollari che raccoglie, distribuisce, stipa, incassetta, trasporta fiumi di camion caricati a pomodoro, che visti da un viadotto sull’autostrada sembrano davvero arterie di sangue.
Lungo la statale Cinque sfilano i cartelli: Agua! Basta Ya! Pregate il Signore! È colpa di Obama! R governo ha provocato la crisi!
Ci sono anche quelli che dicono che non discendiamo dalle scimmie, che siamo stati creati direttamente da Dio (è un argomento molto popolare da queste parti). Alle pompe di benzina, le cassette con il giornale mostrano foto di terra arsa che si spacca, di letti di fiumi asciutti, di laghi prosciugati. Sulla prima pagina del Fresno Bee, una foto da premio. Stagliato su un immenso tramonto, l’agricoltore Bill Henry Baker, alla guida del suo trattore, svelle dal terreno il suo mandorleto, albero per albero. Ha dovuto scegliere. Baker non ha abbastanza acqua per tutti: mille ettari devono morire, per salvarne cinquemila.
Il Dio della pioggia, invocato, è lontano. Se provate a guardarla dal finestrino di un aereo – ovvero la cosa più vicina all’occhio di Dio – avrete un’idea del perché. La California, per la maggior parte della sua superficie, è un deserto. Le grandi foreste di sequoie sono state falciate; piove molto poco, e quando piove, piove solo al nord. Nevica, però, alle grandi altitudini della Sierra Nevada e, per fortuna, la neve accumulata d’inverno sulle cime si scioglie in primavera ed alimenta due possenti fiumi, il Sacramento e il San Joaquin che confluiscono nell’enorme estuario della mitica baia di San Francisco. A sud di questo grande estuario, acqua in natura non ce n’è più, bisogna portarcela. Ma gli uomini hanno avuto l’ardire di costruire Los Angeles proprio in mezzo al deserto. E, per farla crescere, l’acqua l’hanno rubata. L’idea di rubare acqua, invece di considerarla un bene comune donato da Dio e di danzare perché piova e da usare con parsimonia, nasce con quella sfida di città, all’inizio del Novecento. La California è stato il primo luogo al mondo dove davvero l’uomo ha sfidato la natura. Come il buon vecchio Prometeo con il fuoco, qui si è fatto ladro d’acqua.
La storia è stata titanica e tragica e violenta. Sono state costruite le più grandi dighe del mondo, si è cambiato il corso dei fiumi, si sono prima inondate e poi desertificate vere e proprie valli dell’Eden. L’acqua di Los Angeles viene da un crimine, che è poi quello raccontato nel film Chinatown. Ve lo ricordate? Il cinico-idealista Jack Nicholson scopre che il vecchio John Huston è il padrone-assassino dell’acqua della città, e con lei della politica, della polizia e del destino di sua figlia. Era una storia vera. A partire dagli anni Dieci, Los Angeles divenne città e poi metropoli solo grazie ad un monumentale acquedotto privato (un’impresa uguale a quella del canale di Panama) che rubò l’acqua a trecento chilometri di distanza, dalla lontana e immensa valle del fiume Owens. Questa, un tempo paradiso, venne presto desertificata. I contadini cercarono di reagire, sabotarono e addirittura bombardarono l’acquedotto, ma furono sconfitti. La città vinse. E con lei un modello di sviluppo predatorio. Sull’onda di quell’esempio, nacquero le grandi dighe – i simboli del New Deal – muraglie di cemento, cattedrali verticali; la retorica del progresso; le grandi opere pubbliche. Dal 1946 un acquedotto statale succhia l’acqua del Delta e la pompa fino all’estremo sud, in un canale di 770 chilometri, tutto in cemento. San Francisco, fin dal 1920, andò a prendere la sua acqua direttamente dal Yosemite Park, costruendo una diga, la Hetch Hetchy Dam, che davvero ha la mistica laica di una grande cattedrale europea. E si andò avanti così, tra monumenti pubblici e iniziativa privata, con pozzi segreti, guerre di canali e paratie, depositi illegali, speculazioni feroci sugli anni aridi e sugli anni piovosi. Il risultato, finora, è stato eccellente per gli uomini; il deserto disseta una metropoli di 10 milioni di abitanti, una valle grande come un Paese europeo e inscatola verdura e frutta per tutto il mondo. Possibile che tutto ciò abbia una fine?
Sono andato a trovare Chris Acree, giovane e battagliero attivista ecologico a Fresno. Vive in un quartiere malfamato, parliamo sovrastati dal frastuono di un elicottero della polizia. Chris guarda l’orologio: «Cercano narcos, come ogni giorno, ma tra dieci minuti smettono perché se no vanno in straordinario e il municipio non ha soldi per pagare la benzina». Mi dice, snocciolandomi aneddoti, cifre, dati, che «semplicemente sta crollando tutto». L’ansia di succhiare acqua dal Delta porta a pompare nelle condutture sempre più acqua salata, che ha già distrutto migliaia di ettari di campagna. È come se ogni giorno entrasse nella valle un treno con cinquanta vagoni carichi di sale. Quindicimila agricoltori hanno già venduto le loro terre perché ormai troppo malate. Il fiume San Joaquin, dove un tempo scendevano le navi, è stato dighizzato da nove barriere, non esiste più e i salmoni non possono più risalirlo per andare incontro all’oceano. Sorride: «Penso che abbiamo perso in vent’anni un miliardo di salmoni». La corsa a scavare pozzi produce cedimenti e voragini nel terreno. Il cambiamento climatico porterà sempre meno neve sulla Sierra, ma se lo dici, ti dicono che sei comunista.
Di chi è l’acqua? gli chiedo. Chris ride di gusto. Un po’ è del governo, un po’ è delle vecchie famiglie che hanno scavato pozzi o vantano diritti antichi. L’agrobusiness qui è arrivato dovunque. Sono potenti, hanno ogni genere di sovvenzioni «Mi ricordo nel 2005, avevano decine di treni fermi con tonnellate di pomodoro inscatolato che andava a male: riuscirono a rifilarlo all’Iraq a prezzo pieno».
Ma soprattutto, dice, l’acqua è di Stuart Resnick. E mi racconta una storia che potrebbe essere una nuova Chinatown. Stuart Resnick, uno tra i primi cento miliardari per Forbes, possiede la sconosciuta, ma enorme Kern Water Bank, alle porte di Bakersfield, costruita sotto 5 mila ettari di terre abbandonate. È una vera e propria città sotterranea di pozzi, pompe e pipelines in grado di fare la fortuna o il disastro degli agricoltori. La costruì lo Stato, avrebbe dovuto essere una specie di Fort Knox dell’acqua, ma non si capisce come, ad un certo punto si scoprì che Resnick aveva il 51 per cento della società e che poteva vendere e incassare. Resnick è il più grande produttore mondiale di mandorle e pistacchi. Possiede l’acqua minerale Fiji, quella che bevono Obama e le star di Hollywood (la produce nelle isole Fiji, 50 mila bottiglie all’ora, in plastica che viene dalla Cina; e la giunta militare al governo laggiù è una sua creatura). Ha imposto i suoi mandarini senza semi, si chiamano Cuties, e con un marketing senza precedenti, ne ha vendute 75 milioni di cassette l’anno scorso. Pare che i bambini, se non gli dai i Cuties, piangono. Ha chiesto che gli alberi dei suoi concorrenti siano coperti da teli, quando le api che lui ha pagato, impollinano le sue piante. È un liberail ecologista, finanziatore del partito democratico, patrono delle arti e dei musei. «L’acqua in California, per me, è lui»,
Il giorno dopo sono andato a sentire la campana opposta. Stuart Woolf, uno dei più grandi produttori mondiali di conserva di pomodoro e ora di mandorle e pistacchi. Abbiamo fatto colazione insieme, prima che lui prendesse il suo aereo che doveva portarlo nel ranch da 20 mila ettari, dove un drone monitorizza l’andamento dei raccolti. Stuart è colto, simpatico, intelligente ed esplicito. Mi dice che i suoi pomodori forniscono un quinto del ketchup che gli americani consumano, e che tende a salire. Che noi italiani siamo un po’ truffaldini, perché mettiamo nel pomodoro made in Italy un passato che viene dalla Cina, pieno di carote. Che le mandorle sono il futuro del mondo. («A proposito: noi finanziamo centri di ricerca – ci abbiamo messo 42 milioni di dollari – e abbiamo scoperto che le mandorle fanno molto bene a tutto, colesterolo, omega tre, anti ossidanti e riducono il gonfiore della prostata. Prese per bocca, eh!»). Stuart mi ha spiegato che l’agricoltura organica, slow food e tutto il resto sono sciocchezze. Che questa siccità è benedetta, perché farà fuori tutti quegli agricoltori che non sanno stare sul mercato. L’acqua? «Io ho i miei pozzi, li ho pagati e il governo non ci deve mettere becco. Ma è chiaro che adesso è insostenibile. Ieri ho saputo di un’asta in cui sono stati pagati 6000 dollari per innaffiare un ettaro di terra. Noi mettiamo la frutta e la verdura sul tavolo del mondo, noi diamo da mangiare al mondo. Non credo che se i salmoni non risalgano più il San Joaquin sia colpa nostra». Mi è sembrato attrezzato per il futuro.
Così ho visto la ex valle dell’Eden, alla vigilia del cataclisma. Qualcuno pregava, qualcun altro speculava. C’erano manifestazioni dei braccianti messicani, riprese dalla televisione: «Agua! Agua! Job! Food!». Erano tanti: si mettevano in ginocchio e pregavano Dio. Poi scandivano: «Turn on the pumps! Turn on the pumps!», aprite i rubinetti. Uno, intervistato diceva: «Danno l’acqua ai pesci, e non a noi. Ma i pesci non votano». Stuart Woolf, il padrone, mi aveva segnalato questo movimento. «È fantastico, è per la dignità umana». Chris aveva riso: «È lui che gli paga la giornata».
La guerra dell’acqua è iniziata. Dio, invocato, è assente. Tra un po’ ecologisti e grandi capitalisti dell’agrobusiness faranno a botte, almeno politicamente. Forse il prezzo delle mandorle e dei mandarini aumenterà.
E voi, da che parte state? Voglio ben sperare che stiate con l’acqua pubblica, con i referendum, con slow food e Oscar Farinetti. Perbacco. Noi, che abbiamo il mandorlo in fiore, il pistacchio di Bronte e la passata di pomodoro. Se dovessero perdere loro, potremmo vincere noi.
Enrico Deaglio