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 2014  aprile 04 Venerdì calendario

CHE STRANO PAESE: PER IL PETROLIO SIAMO TERZI IN EUROPA, MA NESSUNO LO SA


[Giuseppe Recchi]

C’è una rivoluzione energetica in corso, e ci sta passando accanto, dice il presidente dell’Eni. «Noi europei siamo distratti, ma così ci condanniamo al declino» sostiene Giuseppe Recchi, che ha mandato da poco alle stampe il suo «richiamo a fare strategia» (Nuove energie. Le sfide per lo sviluppo dell’Occidente. Marsilio, pp. 157, euro 13). Cresciuto come manager nel colosso Usa General Electric, Recchi vorrebbe un’Europa un po’ più simile agli Stati Uniti, dove lo sfruttamento delle riserve «non convenzionali» di shale gas (il gas ottenuto con la fratturazione delle rocce) e tight oil (petrolio estratto in maniera non convenzionale) ha cambiato in una manciata di anni le prospettive del Paese. «Ora gli Usa viaggiano verso l’autosufficienza energetica e l’impatto su tutta l’economia è gigantesco)» spiega. «L’energia americana costa la metà di quella europea, un terzo per quanto riguarda il gas. Un vantaggio competitivo determinante, che genera Pil e posti di lavoro, facilitando anche il rimpatrio delle manifatture dall’estero».
Se i vantaggi sono così evidenti come dice lei, perché non cogliamo questa opportunità?
«La cultura anglosassone del pragmatismo è diversa della nostra. Nel Regno Unito l’Arcivescovo di Canterbury in una sua omelia ha detto “viva lo shale gas, perché crea lavoro”, noi non riusciamo a mettere insieme costi e benefici in una dimensione di convenienza di lungo periodo. Vogliamo l’energia a basso costo, ma non vogliamo il nucleare. Ci lamentiamo che non abbiamo fonti diversificate, ma non facciamo costruire i rigassificatori. Cosi oggi abbiamo una bolletta troppo cara, sulla quale le rinnovabili pesantemente sussidiate incidono per il 18 per cento. È la sindrome di un’economia benestante che ha perso la cognizione del percorso che l’ha generata».
Fa parte della nostra cultura anche il «principio di precauzione». Gli europei vogliono valutare l’impatto ambientale delle nuove tecniche di trivellazione, come i rischi di inquinamento delle falde acquifere e di fenomeni sismici in un territorio più densamente popolato di quello americano.
«Il fenomeno shale gas e tight oil dura già da sette anni in un Paese che non ha meno attenzione all’ambiente di noi. Non ci sono prove del paventato cataclisma. Le obiezioni legate agli effetti del fracking le conosco bene, ma in America sono state affrontate su basi scientifiche, con specifici regolamenti sulle modalità di estrazione».
Quindi secondo lei potremmo iniziare a «frantumare» le rocce anche qui in Italia?
«Qualcosa mi fa dire che da noi lo shale non si farà mai. Vede, noi non abbiamo la percezione di essere un Paese petrolifero, ma siamo il terzo produttore d’Europa. Produciamo circa 200 mila barili al giorno e potremmo raddoppiare, con benefici evidenti. Lo Stato incasserebbe diritti minerari per circa due miliardi l’anno. Potremmo creare posti di lavoro grazie a 15 miliardi di investimenti nell’infrastruttura. E comprando meno energia fuori risparmieremmo anche sulla bolletta di acquisizione. Stiamo parlando di idrocarburo convenzionale, ma un po’ la confusione sui diritti minerari, un po’ perché c’è sempre qualcuno che contesta, sta di fatto che l’opportunità non la raccogliamo».
La rivoluzione shale avrà comunque un impatto su di noi, perché indebolisce i fornitori di energia convenzionale come la Russia, storico partner strategico dell’Eni. È una buona notizia?
«La Russia è da sessant’anni un partner affidabilissimo per l’Europa. Non ha mai fatto mancare l’energia o messo in scacco l’Europa. La Russia in sé non è il problema, il punto è diversificare le fonti. Se pensa alla questione ucraina, l’effetto sull’Europa dipende dalla crisi tra Mosca e Kiev. Noi siamo a valle e rischiamo di pagarne le conseguenze. Ed è per ridurre i rischi geopolitici che sono stati pensati il gasdotto North Stream che aggira l’Ucraina e arriva in Germania e South Stream a sud».
Non vede controindicazioni geopolitiche nell’affidare la nostra sicurezza energetica alla Russia?
«La sicurezza energetica oggi è il tema che fa geopolitica, come ai tempi di Napoleone era la lotta per i territori. Il vero problema dell’Europa è la mancanza di una politica comune, siamo in 28 e le politiche energetiche sono nazionali. Per risolvere il nostro rompicapo, dovremmo presentarci uniti davanti ai fornitori. Manca ad esempio un’autorità energetica d’acquisto che avrebbe un potere negoziale molto forte, figlio di una strategia comune dei Paesi».
Una strategia energetica comune però dovrebbe sottintendere una politica estera comune. Oltre a diversi Paesi europei, anche gli Stati Uniti hanno espresso inquietudine per il rapporto così stretto con Mosca. Quanto premono sull’Eni?
«Io non mi occupo di geopolitica, ma chi ne sa più di me si aspetta che l’indipendenza energetica raggiunta dagli Usa disinneschi un pezzo del ragionamento della loro politica estera. Quindi penso che Washington guarderà con minore ansia alle relazioni energetiche tra i Paesi».
Sulla politica estera italiana invece quanto incide l’Eni? L’impressione è che siano spesso i «campioni nazionali» a dettare la linea.
«Oggi, nel contesto dell’economia globale, la misura del successo in politica per tutti i Paesi è la creazione di posti di lavoro. Tra le priorità dei capi di governo rientrano tanto la crescita delle proprie aziende all’estero quanto l’attrattività del Paese per gli investitori stranieri. L’economia è sempre più l’obiettivo delle strategie di politica estera, quindi il successo delle imprese che operano all’estero – l’Eni come altre aziende – coincide con l’interesse del Paese. E non vale solo per l’Italia».
E l’Italia quanto è attraente oggi per gli investitori stranieri?
«Da un certo punto di vista, molto. Oggi i Paesi competono innanzitutto sulle condizioni in cui si può fare impresa. E qui trovi una cultura imprenditoriale, una manodopera qualificata, un mercato. Però un imprenditore è scoraggiato da altri fattori. Dovremmo darci un’organizzazione più efficiente, togliere un po’ di burocrazia, avere un sistema di lavoro più flessibile. Certo non possiamo più vivere di rendita sulla posizione conquistata negli anni Sessanta, oggi sono aumentati i concorrenti ed è accelerata la dinamica del cambiamento. Se non ti adatti sei saltato a piè pari. Il problema è che non so quanti in Italia abbiano l’apertura mentale o l’esposizione internazionale per capirlo».
Il ringiovanimento della classe dirigente aiuta?
«La bontà di una leadership è fatta di visione e di competenza. Il ringiovanimento è un valore perché aiuta a capire meglio il mondo in cui viviamo. Quindi sì, è un fenomeno virtuoso, ma bisogna che si accompagni alle competenze».
E il governo Renzi secondo lei oltre che giovane è anche competente?
«Vedremo, certo il modo con cui si pianificano le cose è cambiato. Fino ad ora prevaleva un approccio contabile, come se la torta delle risorse fosse sempre della stessa dimensione e tagliassimo fette sempre diverse per dare da mangiare a tutti. Nessuno ha mai ragionato sul come far crescere la torta. Ecco, ora questo taglio imprenditoriale c’è e credo sia una fortissima novità, figlia sia della rottura generazionale che delle diverse competenze. L’approccio è buono, vedremo se darà risultati».