Maurizio Chierici, il Venerdì 4/4/2014, 4 aprile 2014
IL PAESE DOVE È SCONSIGLIATO FARE FIGLI
ROMA. Quando un bambino si annuncia, i ragazzi decidono sui tasti della calcolatrice se deve venir al mondo, dopo aver controllato quando guadagnano, quanto devono spendere, insomma se ce la fanno appesi a contratti precari. Avere un figlio a 20 anni è quasi un salto mortale. Quel futuro nella nebbia. «La gravidanza non è più vissuta come un fatto naturale. La scelta è complicata. Prima gli studi e il lavoro, e una situazione economica rassicurante. I sentimenti possono aspettare. La compagna o il compagno ideale paradossalmente arrivano dopo». Ne è convinto Cesare Taccani, specialista in Medicina della riproduzione, Centro della fertilità di Lugano.
Le madri italiane invecchiano, il primo figlio arriva dopo i trenta, se gli ipotetici futuri nonni non hanno spalle robuste. L’età si allunga nell’Europa dei giovani immalinconiti dalla crisi. Le nascite calano ancora, mentre nei mondi che l’ipocrisia vuole in via di sviluppo milioni di adolescenti diventano adulti coi piccoli in braccio. Non sempre i problemi si somigliano. Mentre l’Italia è il Paese delle madri mature, la Francia è il Paese dei bambini. Famiglie borghesi tre, quattro per casa. Nelle case modeste diventano due, con l’ombrello dello Stato. Parigi mette in bilancio 120 miliardi di euro: politiche familiari, cure mediche, asili nido, baby sitter, genitori senza pensieri fino al diciottesimo compleanno. Qui c’è il tasso di natalità più alto d’Europa, secondo solo all’Irlanda.
Diversa la storia dei piccoli italiani. Ai genitori costano ottomila euro ogni 12 mesi, diecimila se sotto i tre anni Si risparmiano sulle tasse 376 euro, per il primo figlio; 312, per il secondo. Miserie. Solo il 18 per cento delle ragazze italiane (titolo di studio medio-alto) mette al mondo un bambino prima dei 25 anni. Il 14 per cento lavora e rimanda e rimanda, e alla fine si arrende. La protezione di Parigi fa concorrenza alla protezione svedese che si preoccupa dei nuovi nati pensando agli anziani. Chi pagherà le pensioni se la ruota non gira e i posti di chi se ne va restano vuoti?
Gli svedesi non guardano ai figli con la preoccupazione del dover iper razionalizzare la decisione di allargare la famiglia. Al lavoro delle donne in Italia si riconosce uno stipendio che supera di poco metà paga maschile, quando invece la parità svedese è sacra. Un equilibrio rafforzato dal congedo parentale di maternità. I genitori hanno diritto al part time fino a quando i bambini compiono otto anni. Mentre la riforma Fornero consente tre giorni al padre (uno obbligatorio, due facoltativi), in Svezia i giorni si allungano fino a 390 (lo stipendio è ridotto del 20 per cento). La coppia sceglie liberamente quando lui, quando lei, ma due mesi a testa sono obbligatori. Per il resto possono modulare la decisione a seconda degli impegni. Chi guadagna di più esce al mattino e va a lavorare, chi guadagna meno si dedica a pentole e pappe. Nessuna meraviglia incontrare nei giardini di Stoccolma giovanotti che passeggiano spingendo carrozzelle. La società è costruita come specchio di famiglie dove maschi e femmine dalla culla in poi sono educati all’uguaglianza tra uomo e donna nel disbrigo della quotidianità: cucina, pulizie, cura dei figli. I quali nelle scuole primarie vengono educati a svolgere le stesse mansioni: cucinare, gestire i bambini, pulire le stanze lontani dallo stereotipo della madre deputata a pentole e pannolini e dall’immagine misteriosa dei padri assenti. Nel loro salvadanaio lo Stato versa 1050 corone al mese, 100 euro fino a quando compiono 16 anni. Gratis asili, scuole, università. Paradiso proibito alle abitudini mediterranee.
Da noi non sono solo i soldi a far tremare le ragazze che si accorgono della maternità sui banchi di liceo o al bancone del primo lavoro. Il disorientamento per un futuro senza salvagente contabilizza gli abbandoni. Tante storie. G.T, di Parma, decide di acquistare il test in farmacia. Comincia un’angoscia «diversa dai tremori che mi hanno perseguitata fino a quel momento», come le pene d’amore o il compito in classe, cose così. Ma avere un figlio senza sapere da che parte cominciare, con un segreto che biologicamente sta per rivelarsi, terrorizza. Abortire con l’«alibi» degli esami della quinta superiore? E l’imbarazzo di andare a scuola con la pancia che cresce? Ecco lo sconforto che ripiega i sogni nel cassetto. C’è sempre un’amica nella quale riversare l’improvvisa infelicità. Piano piano, ne parla col fratello. Lo confessa alla mamma. Al padre, non se la sente. Il compagno ciondola come un fantasma: «Come manterremo la bambina in viaggio?». Eppure, appena arriva, ritrovano una complicata serenità anche se i problemi restano. Lui all’Università per diventare avvocato nello studio del padre. Lei nel purgatorio dei call center e dei part time. Laurea addio. Addio anche alla vita di prima: amici, movide, ballare, weekend innamorati. Notte e giorno attorno a chi comincia a crescere.
A volte le ragazze restano sole con la «vergogna» delle chiacchiere del piccolo paese (il caso di R.S., 19 anni, nella provincia lombarda), dove tutti conoscono tutti e la curiosità è impossibile da contenere. Non può coinvolgere i genitori, che tirano la vita per farla studiare. Deve decidere da sola anche perché lui non se la sente di fare il padre «e mi butta addosso tutti i problemi». Alla fine si arrende: «D’accordo, non lo teniamo...». Via crucis in labirinti sconosciuti: i colloqui con lo psicologo, le domande protocollate dal consultorio: «Come è successo? Da quanto state assieme? Non hai voglia di vedere se t’assomiglia?». Insomma, una vita rovesciata in piazze discrete ma estranee agli affetti nei quali è morbidamente cresciuta. Sempre più sola. Lui sparisce e riappare, svogliato: io cosa c’entro? L’ostetrica prova rassicurarla: «Se anche un minuto prima dell’intervento cambi idea, non succede niente». Ma la ragazza non se la sente e non cambia: «Imparo a soffocare il senso di colpa perché non trovo altre soluzioni». La tormenta un dolore profondo: non riesce a liberarsi dall’immagine del bambino che non abbraccerà. Entra nella sala dove deve succedere. Lui non c’è mentre nell’anticamera degli ultimi ripensamenti un’altra lei e un altro lui discutono se tenere il figlio oppure no. «Assieme, per mano. Li ho invidiati come mai invidierò altre persone». Il padre del figlio mai nato l’accompagna una sola volta all’ecografia ma appena tornati in strada se ne va, senza neanche bere un caffè.
Quando arriva un bambino, la famiglia d’origine è spesso il rifugio dove ricominciare. Padri e madri diventano nonni con imbarazzi che affidano a parole di convenienza: «Purtroppo i tempi sono cambiati. Noi non eravamo così...» dicono marito e moglie, 34 anni di matrimonio, provincia di Udine. Si rimboccano le maniche. «Sono le nonne» spiega il professor Alessandro Bosi, Università di Parma, «a occuparsi dei nipoti mentre padri e madri studiano o lavorano. E se i figli vivono lontani, comincia il pendolarismo fra la loro casa e la casa del bambino rimasto solo». I ragazzi, del resto, da soli non ce la fanno: le baby sitter mangiano metà stipendio; e poi affidare la fragilità del piccolo a una sconosciuta... La madre in rodaggio non se la sente. Senza contare che gli asili nido a tempo pieno sono ormai un lusso per pochi. Al Nord, dall’opulenza ormai avvilita, come al Sud, con discrepanze non facili da capire. A Catanzaro la retta costa 70 euro al mese; a Lecce, 547. Ecco il pronto soccorso delle nonne on the road. Tirano su i nipoti come hanno cresciuto le figlie: riproducendo le abitudini di famiglia. Vita Maria è una ragazza lucana trascinata dagli studi a Bologna, dove ha messo radici. «Mentre cercavo di scegliere il futuro, un test di gravidanza fa sapere che devo rimandare: arriva un figlio. Per fortuna il mio uomo è felice. Divento madre quando mi sento ancora bambina». Nasce Nicola, impegno insostenibile per una ragazza che non vuole perdere il lavoro corteggiato da mesi. Armata di valigia arriva la madre: lascia a Laveno, Basilicata, marito e tre figli. Devono arrangiarsi per sopravvivere senza di lei. Su e giù, 628 chilometri, aspettando la laurea e poi il master e chissà altro cosa. Ogni tanto la nonna torna al Sud con carrozzella e bambino. Ogni tanto i ragazzi-genitori inseguono la nostalgia e scendono in Basilicata. Ma il via vai è soprattutto della nonna: risale al Nord baby sitter a tempo pieno, rimonta sul treno per il Sud quando il marito non ne può più. Mai sola: Nicola sempre in braccio.
Quasi sempre nonni e giovani madri abitano nella stessa città. Al mattino la ragazza deposita il bambino dai genitori, che si improvvisano custodi della memoria, foto e tenerezze per accompagnare la crescita dei nipoti. Apprensive come mai con i figli. I quali si impossessano delle camere della madre o del padre bambini; ammucchiano vecchi giochi che ripescano dalle cantine e libretti illustrati declamati da nonni, che incontri pazienti davanti a scuole, asili, attorno alle piscine dove i piccoli imparano a galleggiare.
Anna C., di Teramo, ricorda quando ogni sera, quasi addormentata, i genitori passavano a «ritirarla» per riportarla a casa e infilarla nel letto della camera accanto. Troppo stanchi per ascoltare o raccontare favole. La felicità ricominciava il mattino dopo, dai nonni, nell’«altra» stanza dei giochi e delle chiacchiere. «Da loro scoprivo com’erano mamma e papà, come giocavano: dispetti, capricci. Sfogliavo foto bianche e nere. Santo cielo, come sono cambiati. Anch’io sarei cambiata così?».
S.T., assistente sociale di Pistola, rivive attraverso i nipoti le piccole storie della figlia che non ha tempo per nessuno. E i suoi piccoli cominciano a guardarla come un’amica invecchiata in posti lontani. La tecnologia – ricorda il professor Bosi – modifica il rapporto nonni-nipoti. D’accordo, favole e ricordi, ma a sei anni il bambino si trasforma in un baby anchorman e organizza la vita di tutti. Memorizza le ore dei cartoni animati tv. Decide il palinsesto della giornata con precisione quasi matematica. Torna da scuola e pretende «in prestito» l’Ipad. Pesta i tasti con la fretta di un innamorato che non ha tempo da perdere. Al primo computer, oggetto misterioso per tanti nonni, racconta scoperte e novità che i vecchi ascoltano con l’orgoglio di avere un genio in casa.
Elena ha 33 anni ed è una donna forte, vive in provincia di Genova, casa in affitto. Figlia di ferrovieri, lavora e si diploma. Per cinque anni passa da un impiego all’altro, tre apprendistati, rapporti annuali mai rinnovati. Finalmente il contratto in una catena d’abbigliamento e comincia a fare progetti. Incontra Paolo, si sposano: durante la vacanza dell’estate 2011 scopre di essere incinta, «il momento più bello della mia vita». Torna e comunica al datore di lavoro di aspettare un figlio. Due settimane dopo viene «dimessa». Protesta, ma le mostrano un foglio firmato sei anni prima al momento dell’assunzione: dimissioni in bianco. Accetta di lasciare quando arriva la bambina. Piange di nascosto e il marito non sa come consolarla. Tre mesi dopo, anche Paolo perde il lavoro: 800 dipendenti licenziati alla vigilia del Natale 2011. Era di servizio sui treni notturni, un servizio quasi abolito. Paolo passa le notti di protesta sotto la torre del Binario 21, stazione di Milano. Sono i risparmi del nonno ferroviere ad addolcire i primi giorni di Ginevra, la bambina che «ha rubato il posto alla madre». Comprano un bambolone dal quale non si separa mai. Dopo sei mesi di proteste Paolo viene «riassorbito». Lo stipendio è dimagrito di un terzo, ma torna la speranza. «Un po’ ce l’abbiamo fatta».
A volte un’inchiesta può trasformare chi cerca le storie degli altri nella testimonianza di chi da sempre si abbandona ad un rapporto senza approfondirne la felicità che all’improvviso diventa impossibile. «Mi chiamo Giulia, mia madre ha solo vent’anni più di me. Ho scoperto la sua giovinezza quando ero ancora piccola e mi aspettava nel cortile della scuola. Sembrava una ragazza fra le signore che tenevano per mano i miei compagni di classe».
Il suo rimpianto è la certezza di non poter avere una figlia alla stessa età. «Sono fidanzata da cinque anni: studiamo e lavoriamo, ma gli stipendi non fanno onore al nome. Fino a 30 anni, o a chissà quando, dipenderemo dai genitori. So che una madre giovane è una madre speciale. Un rapporto che ci trasforma in amiche. Non ha ancora rimosso le inquietudini dell’adolescenza, di quando sfidava il mondo. Mi osserva e capisce, si fida ed io mi fido, alleate nelle battaglie silenziose di casa contro un padre restio alle concessioni. Uno sguardo e siamo d’accordo. La mamma giovane non è solo un’amica con la quale condividere quasi tutto. Sei tu fra qualche anno. La maturità mi ha insegnato a essere consapevole che quando diventi madre le “cose” famose che da piccole sentivamo tirare in ballo se le decisioni sembravano ingiuste (“lo faccio per il tuo bene, domani capirai...”), ingiuste non erano».
Questo servizio è tratto dalla ricerca degli studenti del Corso di laurea magistrale e cultura editoriale. Università di Parma, 2012-2013. Natalia Conti, Marica Musumarra, Alessia Tavarone, Melania Pulizzi, Giulia Maricca, Luigi Di Donna, Letizia Cicchitto, Nicoletta Capone, Carlotta Falcone, Marco Tucci, Erica Saliddu, Federica Russo, Alessandra Leoni, Sara Battaglia, Gianmarco Ferrari, Camilla Pisani, Elena Vecchi, Linda Tosi, Paola Basanisi, Valentina Sciarabba, Giulia Marcigaglia, Sara Giommoni, Francesca Licata, Giulia Martesini, Luisa Nari, Sofia Raisaro, Mattia Begatti, Sacra Sedile, Federica Guatteri.
Maurizio Chierici