Fabio Tonacci, la Repubblica 4/4/2014, 4 aprile 2014
MA I NEGOZI CHIUDONO IL BOOM DELLA SVAPATA È DIVENTATO UN FLOP
Roma.
Mettiamola così, il Tar del Lazio ha soffiato un po’ di ossigeno nella bolla della sigaretta elettronica. Che però continua a sgonfiarsi, e nemmeno tanto lentamente. Sono i numeri a dirlo, prima ancora dei decreti del ministero dell’Economia, delle circolari dei Monopoli di Stato, della comunità scientifica che non ha espresso un giudizio univoco sulla svapata. Tra dicembre e gennaio, a cavallo dell’introduzione della “maxitassa”, un negozio su tre ha chiuso i battenti, dei 4.500 punti vendita spuntati come funghi sull’onda dell’entusiasmo di due anni fa, ne sono rimasti appena 2.500.
«Con quella assurda imposta al consumo fissata dal governo Letta al 58,5 per cento — dice nel giorno della “vittoria” al Tar del Lazio l’Anafe-Confindustria, l’associazione che rappresenta il 95 per cento degli operatori — entro giugno sarebbero spariti tutti i negozi, perché tenerli aperti diventava impossibile ». Risultato che si porterebbe dietro un paio di conseguenze di non poco conto. I 6mila addetti del settore finirebbero per strada e gli appassionati sarebbero costretti a frugare sul web per trovare ricariche e liquidi aromatici.
Una qualche ragione, le 1700 imprese italiane che hanno creduto al business, ce l’hanno. A dimostrarlo c’è l’ordinanza del Tar, che definisce «irragionevole» il decreto Iva e Lavoro nella parte in cui tassa con la medesima aliquota sia la e-cig sia gli accessori. Il caricabatterie e gli astucci, per intendersi. Un recente studio della Luiss-Cesme ha calcolato che, per sopportare quel 58,5 per cento di imposta e mantenere i margini di guadagno attuali, i prezzi dovranno aumentare del 250 per cento. Rialzo che mortificherebbe qualsiasi domanda, riducendola al lumicino. E finora i prezzi delle ricariche, intorno ai 15 euro per 20 millilitri, non sono aumentati solo perché i commercianti hanno venduto le scorte di magazzino incamerate prima del 1 gennaio.
Resta però la sensazione che il grande entusiasmo dei primi tempi sia scemato. Nel 2012 un milione e seicentomila italiani scelsero di tradire le bionde per le svapate. «Non fanno male come il tabacco», si diceva, «si possono utilizzare dovunque, anche al cinema », si sperava. Mantra ripetuti sotto lo sguardo degli scettici, in ufficio e nei locali pubblici. Poi però le certezze dei “nuovi” fumatori hanno lasciato il passo ai dubbi. Mentre il pm Raffaele Guariniello di Torino apriva un’inchiesta per «la presenza di piombo, cadmio, cromo e arsenico» rilevata nei liquidi, era il giugno 2013, il governo pasticciava con le norme, prima vietando le e-cig nelle scuole, poi liberalizzandole, non si è mai capito fino a che punto. Tutto ciò non ha aiutato la moda della svapata, se di moda si tratta.
Ancora a fine anno lo Stato, con slancio di ottimismo, prevedeva nel 2014 di recuperare alle casse dell’Erario 117 milioni di euro con la “maxi tassa”. Al momento, tra sospensive del Tar, resistenza degli operatori e contrazione del mercato, sono entrati zero euro.
«La colpa del calo è della lobby del tabacco», sostiene Franco Spicciariello di Open Gate Italia, società di comunicazione a cui la Anafe ha affidato la battaglia davanti al Tar. «Invece di inglobare il nuovo prodotto, la Federtabacco ha cercato fin da subito di distruggerlo ». E di nuovo si torna a parlare della manifestazione anti-svapata organizzata a Roma dalla Fit un anno fa, degli interventi sul palco di Ugo Sposetti, tesoriere del Pd che denunciò di aver ricevuto 37mila euro dai tabaccai, del lavoro dell’allora sottosegretario Alberto Giorgetti, padre della normativa. «Sono stato vittima di un attacco personale con minacce su Facebook — ricorda — tutto per aver previsto un’imposta che loro si rifiutano di pagare». E che non pagheranno, almeno fino a quando non si pronuncerà la Consulta, o il governo cambierà qualcosa, magari già con la delega fiscale. Sempre che, per quel giorno, la bolla non sia scoppiata del tutto.
Fabio Tonacci