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 2014  aprile 04 Venerdì calendario

MARCE, PRINCIPI NERI, LADY GOLPE, BERGAMASCHI IN ARMI E TOGNAZZI


Per quanto inarrivabili nella loro commovente demenza gli eroi veneti della pala cingolata dell’altro giorno e ancora prima quelli del tanko, anno 1997, che occuparono il campanile di San Marco con un fucile funzionante, una provvista di acqua e una di grappa, hanno una intera tradizione di golpe e rivoluzioni che si compiono secondo i canoni della commedia, se non della farsa. A cominciare dall’atto fondativo di questa Italia cialtrona che finirà sempre per sopravviverci. Il quale atto non fu il degno (e sanguinoso) Risorgimento, culla di stragi e di eroi. Semmai la Marcia su Roma che fu epopea di ragazzi impolverati e reduci delusi e analfabeti appena indottrinati da un Benito Mussolini nascente che prometteva la terra ai contadini, la guerra alla corruzione, più tutto il resto del campionario. E che in quei giorni – siamo alla fine di ottobre del 1922 – se ne stava prudentemente alla larga dalla città fatale, un po’ a Napoli, un po’ a Milano, a vedere come andavano le cose. E se le 28 mila camicie nere radunate a Tivoli, Santa Marinella e Monterotondo sarebbero davvero riuscite a mettere nel sacco Roma, il re, la Storia. Ci riuscirono. In un modo così scombiccherato che ancora oggi, a quasi cent’anni di distanza, non si è capito del tutto. Se per ignavia, stupidità o complicità di tanti poteri, a cominciare da quello della Massoneria.
FATTO STA che bastando qualche drappello di carabinieri a disperdere i facinorosi, e a cambiare (forse) la storia, nessuno si mosse. Il povero Facta, presidente del Consiglio, era corso dal sovrano per farsi firmare lo stato di assedio e dunque la mobilitazione dei 30 mila soldati a guardia di Roma. Ma Vittorio Emanuele III, non per nulla chiamato Sciaboletta, cogitò a lungo e infine non firmò. Fece di meglio. Convocò Mussolini per affidargli l’incarico di governo. E la farsa – dopo un anno e mezzo di spallate e il sangue di Giacomo Matteotti – si raddrizzò in tragedia. Ma sono questi decenni di pace a bassa intensità che annoverano i migliori golpe da commedia. Cominciando da quello architettato dal “principe nero”, Julio Valerio Borghese, che nella notte dell’Immacolata, tra il 7 e l’8 dicembre 1970, lanciò una colonna di guardie forestali di Cittàducale alla conquista del Viminale, uscendone con il bottino di un mitra. Per poi disperdersi nella notte romana poiché un misterioso contrordine era arrivato a fermare tutto. Da chi? Da Andreotti, si disse. No, da Kissinger, anzi da Richard Nixon. E che ebbe come suo vero narratore non uno storico, né un investigatore, ma il grande Mario Monicelli con il suo Vogliamo i colonnelli, protagonista uno strepitoso Ugo Tognazzi. Indimenticabile fu lady golpe. In arte Donatella Di Rosa, 37 anni, che aveva una relazione con un generalone dei parà: tra una svenevolezza e l’altra le parlò di certe riunioni d’alti ufficiali che progettavano l’occupazione della Rai a Saxa Rubra e forse il suo bombardamento.
UN SEGRETO che lei rivelò in una conferenza stampa, con ressa di telecamere, un 7 ottobre del 1993, annunciando il pericolo alla nazione. Ma in realtà illuminando il tutto con i suoi “occhioni azzurri da Dalila Di Lazzaro in miniatura” (Filippo Ceccarelli) di cui si invaghirono tutti, giornalisti e telespettatori. E che a un certo punto, dopo 23 giorni di carcere, e un centinaio di interviste, si inabissò, per ricomparire un anno dopo reggicalze e poi senza neanche quelle, su Playmen, sotto a un bellissimo titolo che recitava: “La mia nuda verità”. Di lì a poco Umberto Bossi minacciò Roma ladrona con “l’urlo dei 300 mila bergamaschi in armi che rimbomba di valle in valle”. Toccò dunque ai primi Serenissimi che finirono tutti sotto processo. E poi in quella nebbia di nostalgie della grande impresa che li indusse, dieci anni dopo, a ricomprarsi il tanko messo all’asta, per la bella cifra di 6770 euro. E che da allora ronfava nel garage di Flavio Contin, che di quella roboante ferraglia non ne aveva ancora abbastanza.