Tommaso Lorenzini, Libero 4/4/2014, 4 aprile 2014
LA PRIMA ITALIANA NELLO SPAZIO: «BASTA SAPER FARE UN PO’ DI TUTTO»
Quando a metà conversazione cade la linea telefonica, il capitano Samantha Cristoforetti, astronauta dell’ESA, la prende con una risata. Ma se capitasse quando sarà lassù? «Non sarebbe un problema, potrebbero succedere avarie ben più gravi, qualche incendio, una perdita d’ammoniaca. Ormai non abbiamo paura di rimanere isolati per un po’». “Lassù” è la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), quella che da novembre e per sei mesi sarà la casa di Samantha, prima italiana nello spazio. Con lei, a bordo della Soyuz, taxi spaziale di prima classe che la porterà tra i 278 e i 460 km di altitudine, il russo Anton Shkaplerov e lo statunitense Terry Virts.
Capitano, cosa significa essere una donna astronauta?
«Dal punto di vista della professione niente, se lei si trovasse in sala operatoria vorrebbe solo che il chirurgo fosse bravo. Chiaro che il genere è una cosa molto importante della nostra identità e l’astronauta donna ha risonanza mediatica diversa, forse suscita più curiosità. Ma le competenze richieste sono le stesse per chiunque».
Ha realizzato un sogno.
«È vero, ne sono stata sempre molto convinta. Le stelle, l’avventura... Poi crescendo ho toccato con mano quanto sia faticoso emi sono trovata a dire che “avrei provato” a fare l’astronauta. Però ammetto di aver avuto fortuna, nell’ottica di una crescita umana e professionale».
L’astronauta è un superman?
«Non credo, nessuno di noi è un premio Nobel o un atleta olimpico. L’astronauta è una persona che sa fare abbastanza bene un po’ tutto. Una delle grosse sfide è aver imparato a fare rapidamente cose diverse, è un bombardamento di nozioni e skills che bisogna metabolizzare. Tutto il sistema fa affidamento sul fatto che l’astronauta apprenda in modo veloce, altrimenti un addestramento come il nostro durerebbe 15 anni invece che tre».
Non vi sentite un po’macchine?
«È tutto molto intenso, a volte serve darsi un pizzicotto per rallentare, “ehi, sono un essere umano”. Però conta tanto l’interazione col pubblico, parlare magari ai ragazzi delle scuole e vedere i loro occhi che brillano ti riporta tutto nella prospettiva che sì, per te è un lavoro di tutti i giorni,ma è davvero un lavoro eccezionale».
Insomma l’astronauta non è un avventuriero alla Star Trek...
«È un lavoro di professionalità dove non si improvvisa, un ambiente operativo molto simile al mondo militare da cui provengo (capitano dell’Aeronautica Militare, ndr): ogni operazione coinvolge decine di persone, che devono lavorare con il massimo dell’affidabilità».
E a quanto pare gli italiani – lei sarà la settima – sono fra i migliori.
«Vero, con Missione Futura proseguirò in qualche modo il lavoro dei colleghi che mi hanno preceduta sulla ISS, Paolo Nespoli, Roberto Vittori e Luca Parmitano. Grazie all’impegno a lungo termine dell’Agenzia Spaziale Italiana abbiamo tante opportunità di volo».
Negli ultimi anni, intanto, la sua casa è stata Baikonur, la “Città delle stelle”sovietica in Kazakistan.
«Un posto mitico, i primi tempi ero sopraffatta dalle sensazioni: Gagarin, la Tereskova, la cosmonautica sovietica. Giri per strada e ti aspetti di vedere uno di questi personaggi: la Tereskova per esempio, prima donna nello spazio nel 1963, abita lì».
E lei, visto che parla russo, tedesco, inglese e francese, non avrà avuto problemi ad ambientarsi. Ma nello spazio qual è la lingua ufficiale?
«Inglese e russo, anche se spesso si parla un divertente mix che è stato ribattezzato russlish».
Cosa si aspetta dalla nuova casa?
«Sarà eccezionale, io la chiamo la casa dell’umanità nello spazio, anche se meno poeticamente è un grande laboratorio di ricerca a microgravità. Il nostro lavoro consiste in esperimenti e ricerca, oltre ovviamente a tenere in buona salute la struttura: se serve, diventiamo elettricisti, idraulici... ».
Scienziati e casalinghi...
«Più o meno. Abbiamo turni di manutenzione stabiliti, pulizia ordinaria ogni settimana. Mentre le mansioni straordinarie (pannelli, filtri, valvole, ventole) sono programmate ogni tre/quattro mesi: tutto monitorato da terra».
Non è un ambiente sterile?
«No, non è una sala operatoria. Per certi esperimenti ci sono zone dedicate, ma la struttura è una casa a tutti gli effetti, ci vivono continuamente in 6 già da più di 13 anni: si mangia, si va in bagno... Ed è grande come un campo da calcio».
E la sua stanza?
«Le nostre camerette sono grandi come una cabina del telefono, l’unico spazio veramente personale: dormiamo nel nostro sacco a pelo, qui abbiamo una sorta di armadietto, qualcuno attacca le foto di amici, parenti».
Avrete altri oggetti personali?
«Soprattutto piccoli ricordi di famiglia e amici, come catenine, pendagli. Tutto però è contingentato per peso e volume, arriviamo al massimo a 1,5 kg per persona. E poi riceviamo piccoli pacchetti dalla famiglia, come si mandano ai militari in missione».
Posta spaziale, dunque, magari c’è anche qualche pacco di pasta?
«Purtroppo nello spazio viene male, c’hanno provato alla Nasa ma pare non sia un granché cucinata a microgravità».
A proposito, come ci si addestra all’assenza di peso (e non erroneamente assenza di gravità)?
«Esistono un paio di modi. Sfruttiamo un aeroplano approntato ad hoc che simula esattamente l’assenza di peso. Una trentina di parabole, di circa venti secondi, e gli oggetti fluttuano. È divertentissimo, non succede spesso da adulti di sperimentare sensazioni nuove: uno arriva a un certa età e crede di aver provato tutto, poi si trova in assenza di peso... Io sono pilota di aerei da caccia però è stato bellissimo anche per me».
Come al luna park?
«All’inizio, forse, quando i ritmi erano molto più lenti. Ora c’è da pedalare, è una continua valutazione su quello che apprendi. Però non chiamerei i voli parabolici un vero addestramento, piuttosto familiarizzazione con quello che ci aspetta. Non sono quei 5/6 voli in assenza di peso che ci abituano alla ISS. Non è una critica, naturalmente: quel “giochino” che si vede su Youtube, con l’astronauta che si dà una spinta e attraversa tre moduli, le prime volte non viene, anzi, spesso si batte una capocciata. Ci vuole un po’di tempo per acquisire la necessaria sensibilità».
Per simulare lo spazio esiste pure la piscina.
«Ma è diverso. Qui l’obiettivo è poter lavorare in tre dimensioni, con l’aiuto di subacquei e contrappesi che vengono messi in varie tasche dello scafandro, che simula la tuta spaziale. Si crea un assetto neutro, ma non si elimina l’effetto del peso: se sono in piedi nella piscina sento il mio peso che mi porta in basso nello scafandro; se sono a testa in giù sento il sangue che va verso la testa. La condizione ideale non si raggiunge, ma si avvicina».
I suoi compiti però non prevedono la passeggiata spaziale.
«Effettuerò esperimenti sulla fisiologia umana, analisi biologiche e sperimenterò la stampa di oggetti 3D che già esiste sulla Terra in assenza di peso».
Ce lo spiega?
«Si usa un filamento polimerico che viene depositato da una testina mobile, strato per strato, per creare in tre dimensioni l’oggetto desiderato. Esempio, se si vuol ricreare una mini Torre di Pisa, si depositano gli strati successivi, dal basso verso l’alto, con tutti i dettagli inclusi nel programma: archi, colonne... Perfezionare il sistema nello spazio sarebbe importante, permetterebbe agli astronauti di “stampare” in orbita degli interi pezzi di ricambio, senza il bisogno di stoccare materiale di riserva o farselo mandare da Terra».
La ISS è dunque sempre più un avamposto terrestre: ma perché non c’è più interesse per la Luna?
«Negli ultimi decenni abbiamo perseguito obiettivi diversi, consolidato una presenza robusta in orbita e imparato a operare in maniera continuativa in questo ambiente ».
Eppure si sogna ancora Marte.
«Tutto deve essere relativo al tempo in cui se ne parla. Prima bisogna essere realistici e sviluppare tecnologie consolidate per andarci. Ma se penso all’umanità fra 500 anni, stento ad immaginarla senza una colonia marziana. Presto faremo i primi passi in tal senso».
Per adesso ci limitiamo ai film.
«Sì, però sono uno spasso. Ho visto Gravity, molto bello, per carità, soprattutto nell’accuratezza della riproduzione della Stazione Spaziale, ma mi veniva da ridere perché succedevano cose inverosimili. Credo che in sala ho dato un po’fastidio, la gente era tutta presa dal dramma e io ridevo».
E un film su «Missione Futura»?
«Con me? Volentieri, ma non credo che verrebbe un granché».