Giuseppe De Rita, Corriere della Sera 4/4/2014, 4 aprile 2014
SE IL CULTO DEL «NUOVO E SUBITO» RISCHIA DI SCONTRARSI CON LA REALTÀ
Sono spesso accusato, e talvolta mi piace darne conferma, di coltivare il continuismo, cioè il valore dei processi sociali spontanei e di lunga durata. Ed è comprensibile che mi venga in questi giorni facile la domanda di come un continuista possa vivere la fiammata di ambiziosa intenzionalità che circola nella classe dirigente italiana: quella che spinge il presidente renzi a «rivoluzionare l’italia»; quella dei radicali italiani che esigono l’amnistia; quella di barbara berlusconi che chiede potere nel partito oltre che nella squadra di calcio; e non ultima quella del papa che vuole non solo la riforma della chiesa, ma il rinnovamento del modo stesso di vivere la fede.
Di fronte a questa fiammata d’intenzioni, fra l’altro circondata da una certa empatia d’opinione pubblica, chi si pensa continuista potrebbe o convertirsi, citando nobilmente la convinzione di bonhoeffer che «occorre tornare alla virtù medievale della intenzionalità»; o dar spazio a un silenzioso malessere individuale, aspettando che l’onda passi; o magari prender nervosamente armi contro un possibile mare di guai. Non riuscirebbe comunque a garantire un’adeguata interpretazione di quel che sta avvenendo.
È meglio allora partire dai fondamentali, e più precisamente dal capire il favore collettivo che circonda chi esprime oggi una forte dose d’intenzionalità. In esso opera naturalmente la stanchezza e quasi il rifiuto per i meccanismi di gerontocrazia, di casta, di corruzione, di furbizia corporativa, che hanno ammorbato gli ultimi decenni della vita pubblica. Ma ciò non può bastare a spiegare l’accondiscendenza generalizzata a chi propone radicali cambiamenti; la si può spiegare solo se si avverte che, nel sentire comune, circola in questa settimana una sorta di disperata speranza che gli ambiziosi «ce la facciano», anche a prezzo di qualche fuga in avanti di ungarettiana rimembranza («morire come l’allodola assetata sul miraggio, ma non vivere di lamento come un cardellino accecato»).
L’intenzionalità risponde di fatto a una profonda attesa collettiva e può quindi esprimersi con forza; e a ciò provvede esaltando i due suoi fondamentali corollari strumentali, la determinazione e la rapidità (negli impegni come nelle decisioni), senza il cui concorso ogni politica intenzionale può impaludarsi in difficoltà e trappole; e addirittura può sfocarsi e regredire verso una preferenza a vivere di lamento (magari rancoroso o indignato) che circola da tempo nei recessi antropologici del paese. Non c’è chi non veda, a questo punto, che se tutto dipende dalla determinazione e dalla rapidità, occorre avere occhio al fatto che queste due opzioni sono essenziali ma fragili. È fragile la determinazione, perché scivola spesso in un volontarismo testardo e autoreferente, senza una dialettica e senza addentellati alla realtà e ai processi sociali di una società complessa (ad esempio i processi di rappresentanza elettorale o di rappresentanza degli interessi intermedi); ed è altrettanto fragile la rapidità, perché rende sempre a rischio e improbabile il governo delle cose, nei tempi in cui le cose emergono ed evolvono.
I prossimi mesi quindi si giuocheranno verosimilmente non tanto sulla previsione di quanto l’intenzionalità regga e le sue ambizioni si realizzino, ma piuttosto sull’equilibrio fra determinazione volontaristica e complessità sociale, da una parte, e fra rapidità e senso dei tempi delle cose, dall’altra. Senza scompensi e squilibri, c’è da sperare, altrimenti rischiamo il ritorno della contrapposizione fra continuismo e culto del nuovo, che non ha portato troppo bene al paese negli ultimi decenni.