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 2014  aprile 04 Venerdì calendario

SINGER, LA LEGGENDA DEL PAZZO DI DIO


Quando scrisse il suo bellissimo romanzo intitolato Yoshe Kalb (1932, ora edito da Adelphi, traduzione di Bruno Fonzi, con una prefazione di Isaac B. Singer, a cura di Elisabetta Zevi), I. J. Singer si immerse amorosamente nel vasto mare della cultura hassidica, come la conosceva dalla realtà e dalla tradizione letteraria.
Nahum, il mistico che legge i Salmi e lo Zohar, è una delle grandi figure della religione hassidica. Ma Singer non rappresentò da lontano il mondo che aveva così caro: lo raffigurò con una vivace, colorita, stravagante luce grottesca. La realtà quotidiana del romanzo è dominata da pensieri erotici, dal denaro, dagli spettri e dall’alcol. Nessuno può negarne la tensione religiosa: ma a volte ci domandiamo se il Dio che regnava sui villaggi ebrei della Polonia e della Russia non fosse il Signore della Bibbia, ma piuttosto quello del Malocchio.
Siamo in un anno indeterminato del diciannovesimo secolo a Nyesheve, nella Galizia austriaca, alla corte di Rabbi Melech. Egli aveva gli occhi sporgenti, impazienti e curiosi: il suo enorme corpo emanava una vitalità furibonda; aveva labbra carnose e sensuali, risolute e tenaci. Quando si metteva in testa una cosa, si agitava, gridava, minacciava, blandiva, si dava da fare finché non aveva raggiunto il suo scopo. Era rozzo e goffo: il suo caffetano informe era sempre sbottonato; la sua barba e i suoi cernecchi arruffati. Sapeva di vino, di cuoio, di cibo e di fumo. Dio, per lui, era una presenza remotissima. Di rado si dedicava alla lettura dei libri sacri: biascicava confusamente metà delle preghiere. Aveva moltissimi figli, per la maggior parte femmine: la sua corte era sporca e chiassosa, brulicante di bambini, di mendicanti e di animali puzzolenti. C’era una quantità di feste: quando un maschio nasceva, o veniva circonciso, o si fidanzava, o si sposava, o veniva chiamato per la prima volta a leggere la Torah nella sinagoga. Tutto ardeva di colori e di rumori.
Rabbi Melech aveva sessant’anni: aveva avuto tre mogli, di cui l’ultima, amatissima, era l’unica immagine capace di sollevare sentimenti e rimpianti nel suo cuore arido e fragoroso. Voleva una sposa giovanissima: la cercò lontano, a Kitevo, in Russia, negli stessi luoghi in cui il Baal Shem aveva fondato il Hassidismo. Trovò un’orfana, Malka, dagli occhi neri e brillanti come quelli degli zingari e capelli foltissimi e nerissimi.
Intanto Rabbi Melech brigava per combinare un altro matrimonio: quello di sua figlia, Serele, che aveva soltanto tredici anni, ma denti forti, grossi seni e solide gambe. Persuase il Rabbi di Rachmanivke, un paese della Galizia russa, a fidanzare il figlio Nahum con Serele. Il Rabbi di Rachmanivke era l’opposto di Rabbi Melech: magro, con occhi profondi, neri e mistici, il viso di una delicatezza malaticcia, che faceva pensare al luccichio delle foglie d’ulivo; vesti eleganti e squisite. Egli si vergognava del consuocero: lo trovava intollerabilmente volgare e rumoroso, e ribadiva che il figlio, Nahum, non era maturo per il matrimonio. Nahum era fragile come una fanciulla, nervoso come la madre, e sempre immerso nelle speculazioni cabalistiche e nel rapporto fantastico con gli angeli.
Malgrado le resistenze del padre, Nahum venne trascinato in carrozza alla corte di Nyesheve, dove Serele lo attendeva con un amore immenso. Nahum non aveva mai visto nulla di simile. Era atterrito e vergognoso. Lì, alla corte di Melech, tutto era strano, disgustoso, ripugnante. Mucchi di immondizia venivano gettati davanti alla sinagoga; dovunque animali sporchi, stupidi fannulloni, dipendenti cenciosi e maleducati.
Nahum detestava Serele, che non apriva mai bocca e aveva un solo modo per esprimere il proprio amore: prendeva dal piatto un pezzo prelibato di pollo e lo metteva nel piatto del marito. Nahum rifiutava il cibo; e rifiutava la moglie, che costringeva a notti solitarie e piene di lacrime. Viveva di nostalgia per il padre e la madre: era una sensazione quasi fisica, come se una corda di acciaio gli avvolgesse il cuore; voleva rivedere le stanze assolate, la fontana con il leone scolpito, l’argenteria luccicante, e gustare di nuovo le spezie profumate della Cina.
Quando Malka, la sposa di Rabbi Melech, arrivò alla corte di Nyesheve, tutto cambiò. Era ostinata e tenace: rifiutò l’abituale taglio dei capelli prima delle nozze, e respinse l’abbraccio del vecchio marito. Qualche giorno dopo vide Nahum: entrambi sussultarono e una gioia selvaggia ed inconscia illuminò i loro volti. Nahum non riusciva più a studiare il Talmud: fissava le pagine senza vedere le lettere; o attraverso di esse scorgeva il volto della ragazza. Quanto a Malka, appena scorgeva Nahum il cuore le cessava di battere: cercava di sfiorarlo con un lembo della gonna, o gli afferrava le mani per qualche secondo, o gli toccava un ginocchio. Alla fine riuscì a trascinare Nahum nel tronco vuoto di un vecchio albero, dove i due, come dice la Genesi, divennero un corpo solo.
* * *
Con questo abbraccio, la storia di Malka e di Nahum si concluse. Malka morì di parto; Nahum scomparve all’improvviso. Nella seconda parte del libro, lo ritroviamo in un villaggio della Galizia russa: sembrava un giovane mendicante dal viso bianco e scavato, e recitava i Salmi senza interruzione. Lo chiamavano Yoshe Kalb, ossia «Yoshe il tonto». Venne nominato servitore della sinagoga di Bialogura, dove lavorava dal mattino presto alle nove di sera. Spazzava la sinagoga: poi andava di porta in porta, dicendo con voce debole: «Ebrei, alzatevi! È l’ora di servire il Signore». Veniva comandato, insultato, percosso: ma non rispondeva, e continuava a recitare i Salmi con voce sommessa. A mezzanotte si svegliava e ripeteva a memoria dei passaggi dello Zohar.
Il libro di Singer si infittisce. Vediamo le lunghe carovane, e le fiere: ecco i robivecchi e i cenciaioli ebrei, con le barbe corte e la faccia brunita come gli zingari; ecco le bancarelle di tela, le cassette di mercanzie, piatti, padelle, pentole, flauti, perline di vetro, anelli di ferro e collane, spille, cianfrusaglie da vendere o da scambiare. I vagabondi si fermavano in ogni villaggio, suonando le campanelle, e soffiando nei fischietti di coccio argentato. Li seguivano i giocolieri boemi, portando una scimmia sulle spalle; gli zingari con marmitte di rame; i vasai, che ogni anno percorrevano migliaia di chilometri. Intanto accadevano incendi, pogrom, catastrofi. Molti attendevano il Messia, che doveva essere preparato dall’accumularsi intollerabile delle sciagure. Nessuno sapeva come il Messia sarebbe giunto: se in mezzo ai fulmini e alle tempeste, o nel silenzio più profondo, scendendo lentamente nella piazza del mercato di un villaggio hassidico.
Dopo una seconda fuga, Nahum ritornò a Nyesheve, dove venne riconosciuto da molti. Attorno a lui si creò un’atmosfera di mistero, di timore e di santità. Coloro che provenivano dalla Russia sostenevano, invece, che egli era Yoshe, il tonto. Un tribunale di settanta rabbini interrogò lo straniero: lui rispose che non sapeva chi era, se aveva i genitori o era orfano, se aveva una moglie o se era scapolo; forse era soltanto una pietra, simile a quelle che ogni viandante incontrava per la strada, e gettava via col piede.
I testimoni si contraddissero. Secondo alcuni era Yoshe, il tonto; secondo altri era il genero di Rabbi Melech; mentre altri ancora sostenevano che era sia Yoshe sia Nahum, un «mostro errante nel caos del mondo».
Lo straniero tacque. Il giorno dopo, vestito di cenci, con una sacca rattoppata sulle spalle, fuggì per la terza ed ultima volta. Era la sua sorte. Il destino di chi ama Dio e parla con lui non può essere che la fuga, l’esilio, la preghiera silenziosa e ininterrotta.