Daniela Ranieri, Il Fatto Quotidiano 3/4/2014, 3 aprile 2014
CI MANCAVA IL PORNO ETICAMENTE CORRETTO
Il porno è vivo e lotta contro un nemico diverso dal bigottismo catto-borghese: la teologia della liberazione femminista, che invece di appropriarsi del mezzo con scandalosa autodeterminazione cerca di ammansirlo, di farne un servizio sociale, di piegarne i canoni di genere nella direzione di una maggiore consensualità femminile e una più spiccata “naturalezza” fisica.
Nelle università anglosassoni va molto di moda intellettualizzare lo scabroso; perciò anche da noi si prova a riscrivere la pornografia in chiave female frendly (vedi Le ragazze del porno, “10 registe per porno d’autore”) omologandola agli standard del politicamente corretto. Cioè di fare un porno “trasgressivo ma ironico” politicizzato dall’educazione sessuale, in cui si cerca di invertire la vecchia equazione sbagliata tra pornografia e istigazione allo stupro. Cioè un non-porno. Perché il regno del porno è l’indecenza, il disagio, l’insudiciamento. Il suo successo secolare attinge all’eccesso sessuale, che non coincide con la vetta ineffabile dell’innalzamento, ma con quella perturbante del degradamento. Inserire i canoni della correttezza nella rappresentazione della sessualità è addomesticarla e imporle una missione, dove il suo senso risiede proprio nella liberazione da ogni compito e da ogni pudore.
Intellettualizzare e politicizzare il porno, lungi dall’innalzarlo alle vette filosofiche di Sade, è farne un vino senz’alcol, una nuotata senz’acqua. Depurarlo dalla volgarità ha qualcosa del chiudere le curve per i cori razzisti: tu li togli da lì, e quelli ricompaiono in tribuna.
La volgarità e il sopruso esistono a tutti i livelli della società, e il porno, specie quando performa la violenza e mette in scena la recita del sessismo, non è che un refugium peccatorum per anime belle convinte di vivere in un mondo armoniosamente governato dal rispetto tra i sessi, dalla pace coniugale, dal decoro istituzionale, dalla “parità” sui luoghi di lavoro.
CHE SIA IL PORNO a dover salvare la civiltà è disperante: come se non fosse la società stessa, con le sue regole e i suoi guasti, a fornire ad esso i codici con cui racconta l’osceno.
“Faremo casting a uomini col cazzo piccolo e donne con la cellulite” rivendica con orgoglio il manifesto cinematografico di My sex: a parte che i video on line sono già pieni di categorie di imperfezioni fisiche che assurgono a condizioni di metafisico disagio-piacere, è proprio nello scandalo fisico il senso del porno, nella spesso pedissequa identità di immaginazione e realtà e nella adesione tra ciò che è ideale e ciò che è normale.
E quanto catechismo in questo orgoglio del difetto! Chi guarda un porno vuole vedere corpi artificiali che recitano la normalità, illudersi di spiare i vicini di casa, entrare nella stanza da letto della casalinga. Ma sa che tutto è inganno, e dispositivi di ironia romantica come lo sguardo in camera o la tecnica del POV (point of view) rivelano che il genere viene dritto dall’estrema sofisticazione del teatro. È nel finto pericolo che quelle situazioni comunicano allo spettatore che questi attinge il suo desiderio, non nella prescrizione normativa delle Asl del piacere; è nella dialettica di perfezione e degrado la sua “bellezza”, non nell’edificante mostra di corpi imperfetti ottimisticamente apparecchiati per un pasto garbato da interno giorno progressista e democratico à la Ozpetek.
Ma il sottotesto più discutibile di queste operazioni sul cui livello artistico non ci esprimiamo (da zero a von Trier tutto è possibile) è che una donna non possa (non debba) poter gradire l’inferno in scatola del porno generalista via web; che a una donna, in quanto creatura per natura migliore perciò obbligata ad esserlo a meno che non voglia snaturarsi, non possa (non debba) piacere quella roba. Che se gode della visione di certe scene fa un atto in qualche modo disonesto e offensivo verso se stessa; che se si guarda dentro frame di umiliazione è perché vi vede il suo simulacro, e ogni posizione, ogni movimento, ogni orgasmo non sono che raggiri a suo danno proiettati sulla parete nella caverna dell’indicibile. Ecco: dal dover-essere e dal giudizio morale siamo stati messi in guardia un secolo fa, quando qualcuno disse al mondo che l’abisso lungamente guardato guarda a sua volta dentro di noi, come uno specchio.