Stefano Lorenzetto, il Giornale 3/4/2014, 3 aprile 2014
GOLPE DA MONA
«Sono impazziti », mi dice a botta calda il veneziano Ranieri da Mosto, discendente di quell’Alvise da Mosto, esploratore nato sul Canal Grande, che nel Quattrocento scoprì l’arcipelago del Capo Verde. Fra corregionali, il soggetto resta sottinteso: sono impazziti governo, politici, magistrati e forze dell’ordine della Repubblica italiana che ieri hanno risposto con una retata al plebiscito veneto sull’indipendenza. Però devono essere impazziti - è bene chiarirlo subito - anche quei sostenitori della Serenissima che, anziché appellarsi al diritto all’autodeterminazione dei popoli sancito dall’Onu nel 1966 e ratificato dall’Italia nel 1977, credono di poter giocare alla guerra con un carro armato assemblato sotto la barchessa.
Il nobile che ospitò nel suo palazzo in campo San Cassian il primo governo di Umberto Bossi non è il solo a pensare, dall’alto dei suoi 90 anni, che lo Stato abbia perso la trebisonda. Secondo l’Ansa, le indagini che hanno portato all’arresto di 24 persone e alla denuncia di altre 27 «sono cominciate circa tre anni fa». Ora, se davvero il «gruppo riconducibile a diverse sigle di ideologia secessionista», come sostengono i carabinieri dei Ros, «aveva progettato varie iniziative, anche violente, finalizzate a sollecitare l’indipendenza del Veneto e di altre parti del territorio nazionale», viene spontaneo domandarsi: scusate, e avete aspettato dal 2012 a oggi per assicurare alla giustizia 51 individui così pericolosi?
Tanta lentezza, riluttanza, indugio, ritardo - chiamatelo come volete - nell’agire, pur sapendo che la sicurezza nazionale era in pericolo, appare del tutto incomprensibile. Anzi, sgomenta.Che cos’avranno aspettato i signori magistrati? Che le brigate venetiste finissero di verniciare il nuovo «tanko», replica di quello sequestrato in piazza San Marco il 9 maggio 1997 a Flavio Contin, El Vècio del commando da ieri nuovamente agli arresti per lo stesso reato? «Un carro armato di carta per la loro propaganda », come l’ha definito persino Dario Cresto-Dina, vicedirettore della Repubblica (quella di carta, appunto), officiando ieri mattina la riunione di redazione in assenza del gran sacerdote Ezio Mauro.
Si possono sparare proiettili di cellulosa? Vabbè che noi veneti passiamo per mona. Ma veramente pensate che questa regione si preparasse a un’insurrezione armata al seguito di un escavatore truccato da autoblindo, guidato da un elettricista di 71 anni? Finirà come l’altra volta, quando il «tanko» fu restituito a Contin, dopo un’asta giudiziaria in cui una cordata di nostalgici del doge ebbe la meglio - sganciando 6.674 euro sull’unghia, si capisce - sulla polizia, che avrebbe voluto esporlo nel proprio museo come corpo di reato.
Desta sospetto che la clamorosa inchiesta sia stata chiusa a soli 12 giorni dalla secessione telematica del Veneto sancita dal sito Plebiscito.eu con 2.102.969 sì (89,1% dei votanti). Domenica scorsa, intervistando il promotore Gianluca Busato, gli avevo predetto che Roma non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Ed ecco, puntuale, la conferma: fra gli arrestati figura anche Franco Rocchetta,principale sostenitore dell’iniziativa referendaria e fondatore di quella Liga veneta che fu la madre di tutte le leghe.
Non conosco gli intimi precordi di Rocchetta. Lo intervistai 15 anni fa, mentre era impegnato a dare nomi veneti a oggetti di uso comune: croto (rospo) al mouse del computer; sitòn (libellula) all’elicottero; damò (da adesso) al fax. Però mi sentirei di escludere che sia capace di azioni malvagie. M’è parso la mitezza fatta persona. Chiunque abbia dovuto fare i conti anche solo una volta con la sua straripante loquacità può testimoniare che tutt’al più riuscirebbe a sbaragliare una compagnia di carabinieri solo a forza di parole. Una sera del gennaio 2000, durante una cena privata, ero seduto davanti a Massimo D’Alema, presidente del Consiglio, che aveva al suo fianco Massimo Cacciari. Squillò il cellulare del sindaco di Venezia: era Rocchetta. Il quale assordò l’interlocutore al punto da costringerlo a passargli il premier, cui voleva raccomandare la causa del popolo veneto. Dieci minuti buoni di monologo, con D’Alema che si limitava ad assentire.
Passati tre lustri, una settimana fa ho inviato all’ex sottosegretario leghista un Sms per chiedergli se sapesse qualcosa di Giuseppe Giacobazzi, ultimo ambasciatore della Serenissima a Londra, che il 23 maggio 1797 ancora inviava dispacci a Venezia ignaro della destituzione del doge Ludovico Manin, avvenuta 11 giorni prima a opera di Napoleone. Rocchetta mi ha steso con una raffica di messaggini: «Leggi gli studi dello scozzese Ronnie Ferguson, professore emerito dell’University of St Andrews». «Prova a contattare David Laven, presso l’Università di Nottingham». «Chiama Alvise Zorzi». «Se ancora attivo, interessante J.G.A. Pocock, neozelandese rintracciabile attraverso la John Hopkins University di Baltimora». «Credo possa essere simpatico ricordare come per mezzo secolo, nell’Ottocento, vi sia stato a Venezia un doge (chiamato in tutta Europa “ el Doxe Rawdon”)di origine britannica, Rawdon Lubbock Brown». «Ancora oggi il veneto è conosciuto presso tutti i mercati persiani». Ecco, giudicate voi quanto può essere pericoloso un intellettuale del genere.
Allora, al di là delle responsabilità penali dei singoli che andranno accertate, qual è il senso di questo blitz estemporaneo, preso sul serio solo dal Tg1 , che ci ha aperto l’edizione delle 13, nonostante appena mezz’ora prima il Tg2 lo avesse derubricato a sesta notizia nel sommario? Lo lascio dire al giornalista Ranieri da Mosto, che nella televisione di Stato ha lavorato per una vita: «È una risposta al referendum. L’hanno tenuta pronta. Una cosa di riserva. Non vogliono perdere una regione di stupidi che lavorano da mattina a sera e versano un fiume di tasse».
Nonostante la breve prospettiva che la vita gli concede, anche da Mosto ha voluto dare il suo voto «un sì al Veneto indipendente e sovrano » - attraverso il call center di Plebiscito. eu. Il governatore Luca Zaia non crede, come molti, all’attendibilità di questa consultazione? Ne indica una ufficiale della Regione, come ha promesso, e facciamola finita una volta per tutte.
Ma se una democrazia non ascolta la voce di migliaia di persone, e neppure quella di un novantenne, a che serve? Non c’è bisogno di una ruspa camuffata da carro armato per abbatterla, né del tintinnio di manette per difenderla. S’è già seppellita da sola.
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it