Mattia Feltri, La Stampa 3/4/2014, 3 aprile 2014
RENZI E GRILLO, NIENTE NOME NEL SIMBOLO PER LE EUROPEE
La fine (parziale e provvisoria) dell’egotismo politico si legge nella parte bassa dei simboli di partito in gara alle Europee: i nomi dei leader cadono per morìa prevedibile ma impressionante. Alla conclusione di una Seconda repubblica basata sul carisma delle leadership - al punto che i capi cambiavano i nomi dei loro partiti mentre i partiti non cambiavano i loro capi - è l’antipolitica a indebolire le strategie anagrafiche. Addio dunque ai Di Pietro e ai Casini e ai Bossi e ai Monti stampati a caratteri spesso sovrastanti le dimensioni di quelli del partito stesso. Resiste soltanto l’eternità ormai fossile del totem Berlusconi: proprio ieri Forza Italia ha diffuso il simbolo in cui non si rinuncia allo sponsor migliore, sebbene il titolare del brand non sia candidabile (e infatti ha subito ripreso a circolare l’ipotesi che in lista ci sarà Barbara, e lei ieri si è vezzosamente rifugiata in un cinematografico non confermo e non smentisco).
È successo, come dice il professor Alessandro Campi, docente di storia del pensiero politico all’università di Perugia, che «tramontano le leadership di un ventennio. Probabilmente se ne affacceranno di nuove, ma ci vuole del tempo». Spiega il professore che non erano leadership basate sul nulla: Antonio Di Pietro veniva dalla popolarità travolgente di Mani pulite, Gianfranco Fini era il rifondatore della destra finalmente postmissina e deghettizzata, Umberto Bossi era il condottiero del ribellismo indipendentista del nord. Tutto finito fra madornali errori politici, piccole e grandi ruberie, spocchie incomprensibili. «Il nome non è più un traino, anzi rischia di essere controproducente», dice Campi che fa notare come una giovane emergente come Giorgia Meloni abbia preferito a sé - per il suo F.lli d’Italia - lo storico richiamo di An, ottenuto per delibera della Fondazione proprietaria: sa che il simbolo di Alleanza nazionale detiene ancora qualche appeal che il suo cognome ancora non ha. Lo stesso vale nella Lega, dove Matteo Salvini non soltanto ha avuto il buonsenso di non sostituirsi tipograficamente a Umberto Bossi, ma anche di rinunciare al marchio usurato Padania (inserito in passato al posto di Bossi) e infilarci un Basta euro, nel tentativo anche abbastanza disperato di riconsegnare un senso all’esistenza del movimento.
Altri si sono invece arrangiati in qualche modo. Nel simbolo dell’Udc - dove resiste uno scudocrociato di ampia gloria novecentesca, ma di attrattiva non irresistibile - la scritta Casini è stata sostituita con un “Italia” buono per sempre; Scelta Civica varca i confini (anche dell’ovvio) e la scritta Monti è stata sostituita con un “Europa” calibrato all’evento. Abbastanza inafferrabile è il caso del Nuovo centrodestra che ha risistemato il simbolo d’esordio, un terribile quadrato in bianco e blu che pareva l’insegna di un’azienda odontoiatrica; adesso è circolare, ha un po’ di tricolore e soprattutto fiducia nel capo: il nome di Angelino Alfano è proprio lì dove stavano i nomi durante tutta la prima Repubblica: forse contano in un grado di seduzione ignoto ad altri osservatori. E così la curiosità vera è che gli unici due uomini in grado di smuovere qualcosa nell’anima al suono del loro nome - Beppe Grillo e Matteo Renzi - vadano avanti nella spersonalizzazione tradizionale, nel caso del Pd, e di ragione sociale, nel caso del M5S. Almeno per ora.