Lucas Arrut, Icon 3/4/2014, 3 aprile 2014
U&S PARTE DELLA TRAMA [Intervista a Tom Wolfe] – C’è chi dice che Back to Blood, il romanzo che sta per essere pubblicato da Mondadori, sia l’ultimo per Tom Wolfe
U&S PARTE DELLA TRAMA [Intervista a Tom Wolfe] – C’è chi dice che Back to Blood, il romanzo che sta per essere pubblicato da Mondadori, sia l’ultimo per Tom Wolfe. Nessuno lo sa. Certo è, invece, che Wolfe, 83 anni e lingua tagliente, quando si nomina un suo nemico sprigiona un’affabilità degna di un nonnino del Southern Gothic (genere letterario a cui si rifanno alcuni scrittori degli stati americani del sud caratterizzato da macabro, grottesco e fantastico, ndr). Tecnicamente lo è. Il suo discorso sereno è l’opposto dei suoi racconti, sincopati e onomatopeici. In un salotto barcellonese, uno dei padri del New Journalism (movimento nato negli anni 60 che unisce letteratura e giornalismo, ndr) oggi maledirà un paio di volte la tecnologia digitale, ma non senza prima chiedere con candore a cosa serve ogni dispositivo che si trascina dietro il nostro fotografo. Nemmeno una mattinata intensa in cui lui è la star sembra reprimere la sua proverbiale curiosità. Se ora si trovasse davanti lo Spirito Santo dell’Obiettività, cosa gli direbbe? «“Continua così, ragazzo!”. I decostruzionisti mi rimproveravano, utilizzando un argomento essenzialmente marxista: “Non capisci che l’establishment ti controlla a tal punto che influenza anche il tuo vocabolario? Credi di dire la verità, ma alla fine stai solamente usando le loro parole”. Ci sono molti intellettuali che si riferiscono alla mia come a una “supposta obiettività”, come se volessero dirmi che nasconde una preferenza della quale non mi rendo nemmeno conto». Tra tutti gli effetti indesiderati che il New Journalism ha avuto sulla professione, qual è quello di cui si dispiace di più? «L’abuso della prima persona singolare. Un errore che io stesso ho commesso. Il mio primo testo, La baby aerodinamica kolor karamella, sulla cultura automobilistica in California, comincia con: “La prima volta che ho visto auto personalizzate...” A meno che tu non sia parte della trama, credo che scrivere in prima persona costituisca un errore». Avrebbe dovuto dirlo al suo intimo arcinemico, Norman Mailer. «Ah, Norman Mailer, che riposi in pace. La sua opera fu distorta dall’ossessione di voler essere parte della narrazione. Almeno ha avuto la decenza di cambiare l’“io” con “Norman Mailer” quando ha scritto dell’allunaggio dell’Apollo 11, Un fuoco sulla luna, ma è incredibile quanto poco interveniva l’autore nell’azione di quella storia! Ma se non è neanche potuto salire sulla navicella!». Non si è mai pentito di non aver fatto pace con lui prima che morisse? «Per niente. Non sono stato abbastanza meschino con lui. Ho fatto di tutto per esserlo di più, ma credo che non sia stato sufficiente». Come mai uno apparentemente così cordiale come lei è riuscito a crearsi tanti nemici? «Grazie. Sono cordiale, è vero. Direi che ha a che fare con quello che scrivi e su chi. Agli inizi scrivevo di quelli che vengono definiti “temi pop”. Per fortuna quella parola è passata di moda. Sa, la gente era giovane e faceva cose selvagge e pazze, e si pensò, per ciò che scrivevo, che dovevo essere molto progressista. Poi un bei giorno decisero di no, che io ero un conservatore. E per la gente continuo a essere tale». Per quello ha creato l’etichetta di radical chic con cui rideva dei righetti progressisti? «Hanno cominciato a chiamarmi conservatore da quando ho raccontato la festa organizzata da Leonard Bernstein a favore delle Pantere Nere. Molti mi hanno chiesto: “Come hai potuto fargli fare una così brutta figura?”. Io? Per caso avevo invitato io le Pantere Nere a casa mia? Lo fecero loro, perché pensavano fosse chic. Non so se ora qualcuno avrebbe scritto una cosa del genere senza “disinfettarla”». Si riferisce a una revisione politically correct? «II politically correct è marxismo “disinfettato”». Le piace classificare i molti insulti ricevuti. Di quale va più orgoglioso? «Quando mi hanno dato dell’ultraconservatore. Ha notato che non esistono più i conservatori? Se lo sei, sei direttamente “ultra”. A lei quale piace di più?». Uno in cui la paragonavano a un bambino che guarda film porno: dicevano che seguiva i movimenti dei corpi, ma non ne capiva le sfumature. Un commento attribuito a Robert Motherwell. «Successe quando scrissi La parola dipinta, una breve storia dell’arte moderna, che non presi molto sul serio. Artforum, una rivista di fama negli Stati Uniti, scrisse che ero un idiota. E nonostante il fatto che anche il solo parlare di una persona la nobiliti, dicevano che non avevo la minima importanza. È possibile che mi senta un po’ orgoglioso di ciò». Non la sorprende la quantità d’informazioni che la gente condivide con lei mentre si documenta? L’ha chiamata, mi pare, information compulsion. «È un problema interessante. E reale (ride)». Si è sentito colpevole per aver abusato della bontà di qualche fonte? O al contrario pensa che cosi si compiaccia un ego, in linea con la teoria warholiana dei 15 minuti di celebrità? «È una questione di status. Se racconti a qualcuno ciò che vuole sapere, aumenti il tuo status. Quando un’auto interrompe la mia passeggiata estiva per Long Island per chiedermi un’indicazione, mi dilungo fino a prosciugare la pazienza del malcapitato al volante. Perché mi diverto: io so qualcosa che lui non sa! E lo sto dimostrando! Se invece non conosco la risposta, dirò: “Chi crede che sia, per l’amor di Dio? Il geografo del paese?” Questa teoria è il mio piccolo contributo alla scienza della psicologia». Cosa ne pensa del giornalismo attivista di Glenn Greenwald, Michael Moore e altri? «Michael Moore riesce a renderlo divertente. E non pretende di passare per imparziale. Non condivido molte delle sue opinioni, ma tanto di cappello, che Dio lo benedica. E degli altri... Non intendo minimizzare il mio lavoro letterario, ma io mi considero anzitutto un giornalista. Quando la gente critica i miei romanzi perché troppo giornalistici, io dico loro che non lo sono abbastanza. E credo che la storia di Edward Snowden sia meravigliosa...». Come affronterebbe un incarico su di lui? «Cercherei di avvicinarmi a lui, ai suoi amici. Per capire. Non lo definirei un traditore, benché abbia agito come tale. Stava danneggiando il suo Paese, ma aveva degli ideali. Gli strumenti di ricerca che ha portato alla luce in nome della nostra sicurezza... sono informazioni di valore! Arriverà un giorno in cui io e lei non ci potremo sedere in salotto senza che qualcuno ci ascolti. Sa che dovremmo fare?». Cosa? «Tornare ali’analogico! Abbandoni subito tutto ciò che è digitale! Vedrà come me ne sarà grato!». La disconnessione digitale è all’ordine del giorno. «Allora lo dica anche al suo fotografo». (Wolfe convince il nostro fotografo a scattare almeno la metà della sessione in analogico, ndr). In Back to Blood è tornato a squartare senza pietà una grande città statunitense. Tutti continuano a odiare tutti. Una tensione che va oltre il razziale e culturale. Miami è sul punto di esplodere? «Il turismo era la prima industria della città. Ora lo sono i trasporti e le banche, ed entrambi hanno a che fare con i latinoamericani. Sa che la filiale della Federal Reserve di Miami gestisce più milioni in contanti di tutte le altre filiali della Federal Reserve del Paese? Perché tutte le transazioni della droga sono in contanti. Magari non è più un ambiente così selvaggio adesso, ma ci fa capire quanto siano importanti gli affari laggiù». Fino a che punto metterebbe a rischio la sua integrità fisica nel sacro nome del giornalismo? «Non la penso così. Quando seguii i Merry Pranksters, un gruppo di hippies di cui ho scritto (in L’Acid test al rinfresko elettriko, ndr), si facevano di Lsd e metanfetamine. Non so se è mai stato con qualcuno che prende metanfetamina. Più che far paura, ti da una strana sensazione. Se vede un tossico disegnare un soldato, non smetterà di aggiungere dettagli, e ne uscirà un gran scarabocchio nero e fitto». Ha sperimentato molto quella droga durante la scrittura della cronaca? «No, mai. Avevo letto e sentito tanto parlare di esperienze terribili. Non dirò che avevo paura, ma dopo aver intervistato così tante persone che ne facevano uso, anche nel momento in cui erano fatte...». Vuoi dire che non ha mai sperimentato droghe? «Mai. C’è chi pensa che presi Lsd in certi momenti della mia carriera. Alcune persone di quel mondo mi misero cose nel cibo, ma non Lsd, grazie al cielo». Cose nel cibo? «Una notte ho pensato di sì, perché ho cominciato ad avere allucinazioni folli, ma si scoprì che era un’altra droga, non ricordo quale. Era potente, ma non durò otto ore come l’Lsd. Uno dei lati positivi del giornalismo è che ti obbliga a fare cose singolari e allo stesso tempo a rimanere saggio».