Pablo Ordaz, Icon 3/4/2014, 3 aprile 2014
SENZA RETE
[Intervista a Lapo Elkann] –
La prima cosa che colpisce di Lapo Elkann (New York, 1977) è la sua prudenza. L’erede più provocatorio della famiglia Agnelli, cerca di esprimere le proprie idee senza ferire chi non ha avuto le sue stesse opportunità nella vita, cioè praticamente tutti. Bambino a New York, Londra e Rio de Janeiro, studente a Parigi e Londra, giovane imprenditore a Torino e Milano. La sua immagine attuale, tante volte associata all’eleganza del nonno Gianni Agnelli, l’Avvocato, vuole essere quella di un imprenditore forgiato da se stesso, da colpi di fortuna e sbagli, responsabile di un progetto ambizioso, Italia Independent Group, presente in 70 Paesi. La strada è stata lunga. Già famoso nell’alta società internazionale, è balzato alla ribalta della stampa mondiale nel 2005 per un problema di droga. Fino a quel momento dietro le quinte del gruppo Fiat, decise di approfittare della caduta per dare una svolta alla propria carriera dimostrando che poteva volare da solo e fondò una nuova società, Italia Independent, con due soci, Giovanni Accongiagioco e Andrea Tessitore. L’impresa debuttò con una collezione di occhiali e abbigliamento tecnico. Oggi, con dispiacere degli scettici, è quotata in borsa e Lapo si è proclamato portavoce di una sfida: aggiornare il Made in Italy. È ancora famoso per il suo stile (collabora con Gucci per una linea di abbigliamento su misura) e i suoi flirt (Martina Stella, Bianca Brandolini, Goga Ashkenazi), ma anche per il suo innegabile fiuto per gli affari.
Si sente più creatore o imprenditore?
«Al giorno d’oggi ogni imprenditore deve essere un creatore e viceversa. A me piace vincere e far vincere, è inutile essere ipocrita, anche se è molto importante farlo con correttezza. Il successo di un’azienda sta nel prodotto, ma anche nel saper essere generoso con le persone che condividono con tè fallimenti e vittorie. Costruire da solo non è il mio modo di lavorare: noi siamo un gruppo, ci compensiamo. E non ce invidia. Ci sono regole, all’interno delle quali si può essere se stessi. Non voglio burattini. E non voglio sempre avere ragione».
È stato sempre così?
«Credo che derivi dal fatto che, da bambino, non andavo bene a scuola. Ero dislessico e soffrivo di deficit di attenzione. Mi confrontavo con i meno bravi: da lì la voglia di fare, costruire, emergere. Ho sempre dovuto affrontare sfide, anche a causa della mia provenienza. Ma mi sono sempre messo in discussione. Penso che il giorno in cui smetterò di farlo, morirò».
Che importanza dà alla comunicazione?
«Uno deve trarre profitto da quello che ha tra le mani, e per fare ciò deve saper comunicare. Che siano occhiali, auto o l’Italia stessa. Ma attenzione: il messaggio deve essere positivo perché oggi sono troppi i ragazzi che si uccidono per la violenza diffusa sui social network».
In effetti basta aprire un giornale per rendersi conto che c’è qualcosa di sbagliato.
«Ci sono imprenditori che amano parlare di tutto: non è il mio caso. Non mi interessa entrare in questioni politiche. Penso che l’Italia, come la Spagna o la Francia, abbia grandi meriti e anche difficoltà derivanti dal fatto che siamo un continente vecchio, stanco, un continente con una grande storia che ha bisogno di mettere in atto dinamiche moderne».
Non ha la sensazione che un contesto come l’attuale sia favorevole a un ritorno a posizioni estremiste?
«Non mi piacciono gli estremisti e nemmeno il razzismo, non solo quello di pelle, anche la discriminazione. Nella mia azienda voglio che ci sia un’atmosfera familiare, che le persone siano felici di andare a lavorare la mattina. E questo clima non posso crearlo da solo. È vero che ci troviamo in una situazione difficile, ma molto meno di tante altre. Non sto dicendo che non ci sia crisi e che non ci siano persone che stanno attraversando momenti estremamente duri, ma non è la Siria. Bisogna capire che ci sono persone con problemi molto più grandi dei nostri».
Ovvero, non è sufficiente guardarsi allo specchio.
«Se dall’esterno sembri perfetto, ma dentro sei vuoto, fai del male a te stesso e agli altri. Pertanto, quando si parla di stile ed eleganza, prima di tutto viene il rapporto con gli altri. Ma è facile essere gentile con i potenti. Bisogna esserlo con tutti. A me viene naturale: mi piace la razza umana. Amo la gente. Per costruire buone squadre, la chiave di tutto sono gli individui».
Lei dice di amare le persone: comprese quelle che fanno parte del mondo dei media?
«Ci sono stati momenti in cui sono stato molto prudente, perché sapevo che qualsiasi cosa dicessi avrebbe potuto essere strumentalizzata. Vede? Non ho mai scelto la strada facile, ho lavorato in aziende che non andavano bene: in Fiat quando morì mio nonno, in Maserati quando non aveva auto, in Ferrari quando si stava rilanciando, con Henry Kissinger dopo l’11 settembre... Ho creato la mia azienda nel bei mezzo di una crisi. Eravamo in quattro e siamo 130 o 140, e Italia Independent è in 70 mercati».
Non è stanco che vedano sempre nella sua immagine il nipote dell’Avvocato?
«Sono molto grato alla mia famiglia e volevo bene a mio nonno, ma io sono io, non la mia famiglia. Basta guardare al fatto che ho costruito un gruppo che non è parte della galassia Agnelli. Non chiediamo i loro soldi, abbiamo i nostri. Per me e per le persone che lavorano con me è importante: io sono qui perché credo in questa azienda. E se dovessi scegliere un modello, direi il nonno di mio nonno (Il senatore Giovanni Agnelli, ndr), che ha costruito la Fiat dal nulla. O Enzo Ferrari, che ha creato la Ferrari».
Le danno anche del dandy.
«I dandy sono effimeri e io non lo sono. Non sto dicendo che non mi piacciano le cose belle, tuttavia io sono una persona profonda. Non sono finto. Come tutti i giovani, non sono stato perfetto. Ho avuto voglia di essere, come dire, allegro, e a volte l’allegria in un mondo austero non è premiata. Ma io non voglio piacere a tutti».
Non la colpisce il modo, forse troppo indolente, con cui alcuni giovani stanno affrontando una crisi così avversa?
«È molto più difficile essere giovani oggi rispetto a qualche anno fa. Il mercato del lavoro è supercomplesso, in Italia si raggiunge circa il 47% di disoccupazione giovanile. La prima parte del problema è l’educazione data dai genitori, anche se non li voglio attaccare. E poi il sistema educativo. Quello anglosassone, per esempio, aiuta a entrare nel mondo del lavoro. Bisogna creare politiche giovanili che inizino nella scuola e che si basino sull’assistenza, non sul puntare il dito. Perché fin dall’inizio della sua vita un giovane oggi sa di non avere diritto a sbagliare. I giovani sono il futuro, ed è nel futuro che si deve investire. Chi, come me, ha la possibilità di aiutare, deve farlo. Ci sono state grandi persone che mi hanno aiutato, nemici inclusi, che hanno rappresentato un modello di ciò che non voglio essere».
Se dovesse ricominciare da zero con un nome diverso, senza i suoi contatti e senza troppi soldi nel portafoglio, cosa farebbe?
(Lunga pausa) «È facile dare una risposta da questa poltrona. Proverei a parlare con la gente di cui ho fiducia e stima, a discutere con loro qualsiasi idea abbia intenzione di sviluppare. Un bar, una piccola azienda... E poi, questo da solo, cercherei di capire qual è il mio sogno. È importante fare un lavoro che amiamo, perché è più semplice far emergere il talento. Ma è un lusso che non tutti possono permettersi. È facile per me dire questo, ma a volte è meglio accettare posizioni che danno più libertà dove guadagniamo di meno, che guadagnare di più ed essere meno liberi. La cosa bella dell’essere giovane è non dover rinunciare a questa libertà».