Micol De Pas, Panorama 3/4/2014, 3 aprile 2014
PER FARVI SENTIRE A CASA
Benvenuti nella Repubblica di Zubrowka, stato immaginario collocato sulle Alpi dell’Europa centro-orientale. È lì, in un tempo approssimativamente indicato come gli anni Trenta, che si svolgono le vicende di Gustave H, all’anagrafe Ralph Fiennes, professione concierge. Sono le coordinate di The Grand Budapest Hotel, ultimo film di Wes Anderson che, dopo la fortunata presentazione al Festival internazionale del cinema di Berlino (ha aperto la manifestazione, per vincere poi il Gran premio della giuria), arriva nelle sale italiane il prossimo 10 aprile.
La storia è piuttosto intricata perché Gustave H è di fatto il direttore dell’albergo, nonché la passione di un’anziana signora che verrà trovata morta nella sua camera. Da questo momento in poi, le vicende politiche precipitano: inizia la guerra nel Vecchio continente. Ma nell’asburgica Zubrowka gli eventi si tingono di giallo e la pellicola assume i toni del thriller, tra la ricerca dell’assassino e di un quadro rinascimentale dal valore incommensurabile. Protagonista indiscusso è però Gustave H, con la sua acqua di colonia, quel savoir faire tanto delicato quanto studiato e i suoi sentimenti, declinati, in primo piano, nell’amicizia con Zero, il giovane Lobby boy apprendista e, nel profondo, con la splendida Tilda Swinton nei panni dell’ultraottuagenaria Madame D. Come sempre nei lavori di questo regista nulla è lasciato al caso: ogni singolo oggetto racchiude in sé citazioni e sinestesie così perfette da innalzare anche la soglia di interesse per Budapest stessa, in un gioco, al limite dell’equivoco, con il titolo del film. Tutto, però, dalla pettinatura di Fiennes al make-up della Swinton, dagli abiti alle confezioni di pasticceria, concorre a definire una professione, quella di concierge.
PROTAGONISTI SILENZIOSI «In effetti, il portiere ha un ruolo di primo piano nell’albergo, sicuramente punto di riferimento per i clienti» spiega Michele Paonessa, presidente dell’Unione italiana portieri d’albergo, del network internazionale Les clefs d’or, e chef concierge all’Hotel Plaza Lucchesi di Firenze. E se è vero che oggi la realtà è molto diversa da quella descritta da Anderson nel suo film, la figura del portiere d’albergo è in certa misura immutata. È lui, infatti, a fidelizzare (o meno) il cliente: il suo carisma, la gentilezza e, soprattutto, la capacità creativa nell’accontentare e stupire gli ospiti, fanno il successo di una destinazione.
«Io sono un po’ old fashion» dichiara ironicamente Paonessa, «ma per me guardare una persona negli occhi è fondamentale. Si diventa psicologi facendo questo mestiere, che impone di trasmettere fiducia al cliente: l’onestà è la caratteristica principale per un concierge». E le altre? «Avere il sorriso facile e sincero, essere disponibile a tutto e molto discreto».
A MISURA DI SOGNO Forse più che le richieste bizzarre e sopra le righe a mettere veramente alla prova i portieri sono quelle situazioni in cui il destino sembra voler avere ragione su tutto (e tutti). Quei casi alla sliding doors in cui per esempio due coppie si ritrovano nello stesso albergo, per scoprire che in realtà sono un lui e una lei della stessa coppia sposata che, fortuitamente, si ritrova con il rispettivo amante sotto lo stesso tetto. Oppure, come racconta Paonessa, «quella volta che un broker newyorkese mi ha chiamato per creargli la situazione ideale in cui chiedere alla sua fidanzata di sposarlo. Mi sono inventato un giro in carrozza sul Ponte vecchio, a Firenze, con due ragazzi che a sorpresa hanno srotolato uno striscione che recitava: “Michelle, vuoi viaggiare con me per il resto della tua vita?”. Il seguito è venuto da sé, compresi il brindisi e gli applausi dei passanti». E conclude: «Oggi anche negli hotel di lusso c’è chi si compra l’acqua al supermercato per spendere meno: è cambiato il turismo. Ma chi si rivolge al concierge chiede soprattutto contatti e conoscenze sul territorio, che fanno di ognuno di noi una piccola agenzia di servizi».
A raccogliere alla lettera questa filosofia è David Amsellem, presidente della John Paul, società internazionale di concierge, pronta a soddisfare clienti individuali, ma soprattutto a lavorare con i più grossi brand dell’hôtellerie di lusso: «Per rispondere a tutte le richieste, gli alberghi hanno bisogno di esternalizzare il servizio e contare su un team specializzato in diversi settori» spiega. E infatti uno staff di oltre 200 persone nel mondo è pronto a dare una mano ai portieri dei resort. In questo modo, secondo Amsellem, si può svolgere la funzione principale del concierge: dare il giusto servizio alla giusta persona, nel giusto tempo. «A parte pretese incredibili, come quando abbiamo dovuto recuperare una serie di pinguini per allestire in 40 ore una festa a tema black and white, la vera difficoltà è esaudire i desideri degli ospiti a prezzi contenuti: è facile proporre un jet privato a un cliente che cerca un aereo per partire poche ore dopo. Ma il successo si ottiene con un posto su un volo best price». E forse ha ragione: la John Paul, con i suoi servizi sartoriali, è al momento la numero uno nelle classifiche delle migliori società di concierge.
Anche la tecnologia ha cercato di appropriarsi di questa professione, per esempio con le app. Ma il ruolo del portiere non è traducibile nel sistema binario e l’elemento analogico prevale su qualsiasi software, per quanto sofisticato. Così quattro chef concierge tra i più quotati del mondo concordano nel dire che per fare questo mestiere bisogna avere un Dna particolare. Con i cromosomi della resilienza, intrecciati a quelli della pazienza e del gusto nel soddisfare gli altri. «La tecnologia è solo un altro strumento che deve rientrare nella propria professionalità » spiega Maurice Dancer del Pierre di New York. «Se un cliente usa la lingua del web, bisogna rispondere con lo stesso alfabeto; ma se invece si perde tra le proposte online, occorre intervenire di persona». Al Ritz di Londra addirittura la professionalità si gioca sul filo della memoria: «L’epoca digitale sicuramente ha facilitato i nostri compiti» dice Michael De Cozar, head concierge, «ma un buon portiere d’albergo deve tenere tutto a mente: chi fissa il monitor, o cerca affannosamente numeri di telefono su Google, perde credibilità». La conclusione spetta ad Andrea Vendramel del Carlton Baglioni di Milano: «Se l’ospite si rivolge al concierge è perché vuole il consiglio di un membro “Chiavi d’oro” e crede nel contatto umano». Ecco perché c’è anche chi soggiorna in strutture più economiche, ma si appoggia ai portieri deluxe. Parola della giornalista Wendy Perrin, firma del magazine americano Traveller, che ha stilato un vademecum per il viaggiatore smaliziato: riconoscere il superiore talento del portiere, sottolineando il tempo perso nel tentativo di districarsi nella giungla delle informazioni, per complimentarsi con lui della profonda conoscenza del territorio, dimostrata con il suo consiglio. Chissà se bastano queste lusinghe per carpire i segreti di un concierge (o di Gustave H di The Grand Budapest Hotel). Di sicuro, farà di tutto per esaudire i vostri desideri.