Romain Puértolas, L’Unità 2/4/2014, 2 aprile 2014
LA GRANDE FACHIRATA ALL’IKEA DI PARIGI
LA PRIMA PAROLA CHE PRONUNCIÒ L’INDIANO Aja tashatru Lavash Patel arrivando in Francia fu una parola svedese.
Ikea.
Ecco cosa disse a mezza voce.
Poi chiuse la portiera della vecchia Mercedes rossa e aspettò, con le mani appoggiate sulle ginocchia setose, come un bravo bambino. Il tassista, che non era sicuro di avere capito bene, si girò verso il cliente, facendo scricchiolare le palline di legno del coprisedile. Dietro vide un uomo sulla quarantina, alto, secco e nodoso come un albero, con il viso olivastro e baffi giganteschi. Le sue guance scarne erano tutte cosparse di buchini, postumi di un’acne virulenta. Aveva molti anelli alle orecchie e alle labbra, come se avesse voluto chiudersele dopo l’uso, tipo zip. «Bel sistema!», pensò Gustavo Palourde, a cui sembrava una fantastica soluzione per l’incessante chiacchiericcio di sua moglie. L’abito dell’uomo, di lucida seta grigia, la cravatta rossa che non si era preso la briga di annodare ma aveva fissato con una spilla, e la camicia bianca, tutti stazzonati, dimostravano che si era fatto parecchie ore di viaggio. Però stranamente non aveva bagagli. «O è un indù o ha un bel trauma cranico», pensò il tassista vedendo il grosso turbante bianco che avviluppava la testa del cliente. Ma il viso olivastro e i baffi giganteschi facevano propendere per un indù.
– Ikea?
– Ikea, – ripetè l’indiano strascicando l’ultima vocale.
– Quale? Ehm... What Ikea? – borbottò Gustave, che con l’inglese si sentiva a suo agio quanto un cane su una pista di pattinaggio.
Il cliente scrollò le spalle come per dire che non gliene fregava niente. Giastikea, ripetè, dasnmaterteuantebetersuitsiuiuareparij. Ecco più o meno cosa capì il tassista, una confusa sequenza di incomprensibili cinguettii palatali. Ma, cinguettii palatali o meno, in trent’anni di lavoro con i Taxis Gitans era la prima volta che un tizio appena uscito dal terminal C dell’aeroporto Charles-de-Gaulle gli chiedeva di portarlo in un grande magazzino di mobili: perché non gli pareva proprio che recentemente l’Ikea avesse aperto una catena di hotel. Di richieste insolite, Gustave ne aveva ricevute tante, ma questa le batteva tutte alla grande. Se il tizio veniva davvero dall’India, aveva sborsato una bella cifra e passato otto ore su un aereo al solo scopo di andare a comprarsi una libreria Billy o una poltrona Poang. Tanto di cappello! Anzi, incredibile! Doveva annotare rincontro nel suo libro d’oro, tra Demis Roussos e Salman Rushdie, che una volta gli avevano fatto l’onore di appoggiare l’augusto didietro sui sedili leopardati del suo taxi, e soprattutto non dimenticarsi, a cena, di raccontare questa storia a sua moglie. Visto che in genere lui non aveva niente da dire, a tavola era la sua consorte, alla cui bocca carnosa purtroppo mancava ancora una geniale zip indiana, a monopolizzare, la conversazione, mentre la loro figlia mandava sms sgrammaticati a coetanei che non sapevano nemmeno leggere. Per una volta sarebbe stato un bel cambiamento.
– Ok!
Il tassista gitano, che aveva passato gli ultimi tre weekend con le signore di cui sopra su e giù per i corridoi del negozio svedese allo scopo di ammobiliare la nuova roulotte di famiglia, sapeva bene che l’Ikea più vicina era quella di Roissy Paris Nord, a soli 8,25 euro di distanza. Quindi optò per quella di Paris Sud Thiais, situata dall’altra parte, al capo opposto della città, a tre quarti d’ora di strada da dove si trovavano in quel momento. In fin dei conti il turista voleva un’Ikea. Non aveva precisato quale. E poi, con quel bel vestito di seta e la cravatta, doveva essere un industriale indiano ricco sfondato. Era una differenza di poche decine di euro, no? Soddisfatto di sé, Gustave calcolò rapidamente quanto avrebbe incassato dalla corsa e si fregò le mani. Poi spinse il pulsante del tassametro e mise in moto.
Tutto sommato, la giornata cominciava piuttosto bene.
Di professione fachiro, Ajatashatru (si pronuncia Ganascia-da-gru) per la sua prima venuta in Europa aveva deciso di viaggiare in incognito. Nell’occasione aveva sostituito l’«uniforme», che consisteva in una specie di enorme ciripà, con un abito di seta lucida e una cravatta, presi a nolo per un tozzo di pane da Kamaal (si pronuncia Che-mal), un vecchietto del suo villaggio che in gioventù era stato rappresentante di una celebre marca di shampoo e infatti aveva tuttora dei bei riccioli grigiastri.
Indossando quel travestimento, che si sarebbe tenuto per i due giorni della gita, l’indiano nutriva la segreta speranza che lo scambiassero per un industriale indiano ricco sfondato, ecco perché non aveva scelto una mise confortevole, tipo tuta e sandali, per un tragitto in autobus di tre ore e un volo di otto ore e quindici minuti. In fin dei conti turlupinare la gente era il suo mestiere: era un fachiro. Quindi aveva conservato, per motivi religiosi, solo il turbante. Sotto il quale continuavano a crescergli i capelli, che in base alle sue stime dovevano avere raggiunto ma lunghezza di quaranta centimetri e una popolazione di trentamila anime, tra microbi e pidocchi.
/Salendo in taxi, quel giorno, Ajatashatru (si pronuncia Accatta-sta-gru) si era subito reso conto che il suo abbigliamento aveva favorevolmente colpito l’europeo, benché ne lui ne suo cugino fossero riusciti a fare il nodo alla cravatta, nemmeno dopo le spiegazioni, chiare si, ma tremolanti, di Kamaal, che aveva il Parkinson, e perciò doveva senz’altro passare inosservato tra tanta sfolgorante eleganza.
Poiché un semplice sguardo nello specchietto retrovisore non gli era bastato per contemplare una simile beltà, il francese si era persino voltato per ammirarla meglio, facendo scricchiolare rumorosamente le ossa del collo come se stesse per eseguire un numero di contorsionismo.
– Ikea?
– Ikeaaa.
– Quale? Ehm... What Ikea? – aveva bofonchiato il tassista, a suo agio con l’inglese quanto una vacca (sacra) su una pista di pattinaggio.
– Just Ikea. Doesn’t matter. The one that better suits you. You’re the Parisian.
Il tassista si era fregato le mani sorridendo e poi aveva messo in moto. «Ha abboccato», aveva pensato Ajatashatru (si pronuncia Accasciati-Artu), soddisfatto, in fin dei conti il suo nuovo look funzionava a meraviglia. Con un po’ di fortuna, e se non avesse dovuto aprire bocca troppo spesso, l’avrebbero addirittura preso per un autoctono.
Ajatashatru era famoso in tutto il Rajasthan perché ingoiava spade retrattili, mangiava schegge di vetro fatte di zucchero dietetico, si piantava nelle braccia aghi truccati, e per una sfilza di altri numeri di cui era il solo, a parte i suoi cugini, a conoscere il segreto e che, per ammaliare le folle, amava definire «poteri magici». Perciò, al momento di pagare la corsa, che ammontava a 98,45 euro, il nostro fachiro porse al tassista l’unica banconota di cui disponeva per l’intero soggiorno, un finto biglietto da cento euro stampato da una parte sola, indicandogli con un gesto disinvolto che poteva tenersi il resto.
Proprio mentre lui lo infilava nel portafoglio, Ajatashatru lo distrasse additando le enormi lettere gialle I-K-E-A che campeggiavano fieramente sull’edificio blu. Il gitano alzò gli occhi al cielo quanto bastava perché il cliente potesse tirare con destrezza l’elastico invisibile col quale si era legato al mignolo la banconota. In una frazione di secondo i cento euro tornarono in mano al loro proprietario.
– Ah, senta! – esclamò l’autista credendo che fossero al sicuro nel portafoglio. – Ecco il numero del nostro servizio radiotaxi. Caso mai le servisse una macchina per il ritorno. Abbiamo dei furgoni, se è carico. I mobili, anche in kit, prendono un sacco di posto, mi creda.
Non seppe mai se l’indiano avesse capito qualcosa di quello che aveva appena detto. Frugò nello scomparto del cruscotto e tirò fuori un cartoncino su cui una ballerina di flamenco si sventagliava con la ben nota feluca di plastica fissata sul tettuccio dei taxi parigini. Glielo porse.
– Merci, – rispose lo straniero.
Una volta scomparsa la Mercedes rossa dei Taxis Gitans senza alcun intervento da parte dell’illusionista, abituato a far sparire solo elefanti indiani dalle orecchie piccole, Ajatashatru si mise in tasca il cartoncino e osservò l’enorme edificio che aveva di fronte.