Giuseppe Fumagalli, Oggi 2/4/2014, 2 aprile 2014
NEL REGNO DI CHIARA
Garlasco (Pavia), aprile
La porta si apre. Aprendosi un lunedì d’agosto del 2007 diede inizio a una storia che sette anni dopo non è ancora finita. E forse non finirà mai. Dopo la porta c’è la sala. E dopo la sala, la scala. I gradini su cui finirono il corpo e il sangue di Chiara Poggi. Dà un brivido ritrovarsi lì, sulla scena del delitto. Ma dura poco. L’orrore ha trovato qualcosa di più forte. La scena del delitto è tornata quello che era. Una casa. Fresca, pulita, ordinata, profumata di primavera. Giuseppe Poggi, papà di Chiara, è in giardino, tra le sue piante. Mamma Rita apre la casa. Lo fa per la prima volta. E per la prima volta, seduta sul divano, accanto a uno scaffale trasformato in altare domestico, prova a raccontare tutto. Una storia d’amore e dolore. Una difficile ricerca della verità che il 9 aprile, per la quarta volta, riporterà in un’aula di giustizia Alberto Stasi. È accusato di essere l’assassino di Chiara. Era stato assolto in primo grado a Vigevano e in secondo grado a Milano. Ma la Cassazione ha annullato tutto e ha rimandato gli atti a una nuova sezione d’Appello per ricominciare tutto da capo.
«Sono serena», dice Rita Poggi, «e non so come ho fatto. Mai avrei immaginato che sarei riuscita a ritrovare un equilibrio. Non ne usciremo mai. Ma riusciamo a reggere».
Tante volte nelle coppie queste vicende anziché unire spaccano.
«Siamo stati fortunati e siamo uniti più di prima. Siamo stati forti. Anche per Marco, l’altro nostro figlio».
Sono passati sette anni. Ricorda l’inizio?
«Eravamo in montagna e la telefonata l’ho ricevuta io. Erano i Carabinieri: venga subito in caserma. Cos’è successo, chiedo. È morta sua figlia, mi dicono. È morta mia figlia? Ma quando, dove, un incidente? No, rispondono, in casa, sulla scala. La nostra vita da quel momento non è più stata la stessa».
Quando ha potuto vedere sua figlia?
«Il giovedì dopo l’autopsia».
Quando è potuta tornare a casa?
«Ci hanno detto che per qualche giorno non saremmo potuti tornare. È stata sotto sequestro otto mesi. Ogni volta che avevo bisogno di un vestito dovevo chiedere il permesso al magistrato. Poi entravo, aprivo un armadio e dietro avevo un carabiniere».
La casa era come l’aveva lasciata il killer?
«Sì, è stata pulita quando ci siamo tornati. Il 16 aprile 2008».
Cos’ha provato a tornare?
«È stata una grande emozione».
Uno choc?
«Lo choc è un’altra cosa, quello che per tanto tempo non ci ha permesso di capire bene cos’era successo. E per fortuna. Perché intanto il tempo è passato. Il tempo non è un medico che guarisce tutto, ma qualcosa piano piano si cicatrizza. Quando mi hanno consegnato la casa ero felice. Però mi sono resa conto che io ero tornata, noi eravamo tornati, ma Chiara non tornava più».
Come convive con l’eco di un crimine?
«Chiara è stata uccisa qui, però io qui ho anche tanti ricordi belli. Siamo qui dal ‘95, questa è stata per 12 anni la casa di Chiara ed è rimasta come quando c’era lei».
Com’era sua figlia?
«Era timida riservata. Si notava per come non si faceva notare. Amici pochi. Sul cellulare avrà avuto una ventina di numeri».
In casa?
«Con noi era una presenza allegra. Gioiosa. Affettuosa. Studiava un po’ dappertutto, a volte in cucina. Era autonoma. Si arrangiava in tutto. A Natale, Pasqua, compleanni, festa della mamma o del papà lei era quella dei regali. Ci riempiva di pacchettini. Le piaceva far sentire le persone importanti».
E oggi?
«Chiara è ancora in questa casa. È nell’aria. La sento. Io sto bene a sentire mia figlia. Non chiedo mai a mio marito e mio figlio come stanno loro. Però li vedo. Noi qui stiamo bene. È la nostra casa».
Aveva un sogno Chiara?
«Sposarsi e fare la manager. La frenavo. Però era determinata e ce l’avrebbe fatta».
Il primo fidanzato?
«Alberto. Ne parlava tanto. Non posso dire di averlo conosciuto. Quando lui passava a prenderla e lei non era pronta, lo facevo entrare e si facevano due parole. Li vedevo tranquilli, a me andava bene».
Due flash. Lei che abbraccia Alberto al funerale e lei che gli fa scudo al cimitero. Come volesse proteggerlo.
«Allora non potevo immaginare».
Oggi invece immagina.
«Ho molti dubbi. Ora mi aspetto risposte».
Cosa l’ha fatta cambiare? «Sono emersi elementi che mi hanno fatto riflettere. È stata una cosa progressiva. Che va ancora avanti. Come un puzzle, con le tesserine che man mano vanno al posto giusto. E se si mette tutto al posto giusto la verità sulla morte di mia figlia, secondo me, viene fuori».
Quali sono secondo lei gli elementi?
«Il primo è che mia figlia era molto accorta. Era sola, i vicini non c’erano. Mia figlia non ha aperto a uno sconosciuto».
Poi?
«Come ha fatto Alberto a non sporcarsi le scarpe? Lo spazio lo vedete. È tutto qui, pochi metri. C’era sangue ovunque. Dice di essersi fermato ad aprire la porta a soffietto che va in cantina, di aver sceso due gradini. Era un lago di sangue. Come ha fatto a non sporcarsi?».
La difesa sostiene che Alberto ha consegnato le scarpe dopo una giornata di interrogatorio. Le macchie se c’erano potevano esser state rimosse.
«Ma il Dna rimane. E se anche il sangue è andato via dalle scarpe, nel sangue dovevano rimanere le impronte. Non ci sono. Perché?».
In aula si è trovata di fronte ad Alberto?
«Sì e non ho provato niente di particolare».
Riesce a immaginare l’aggressione?
«È stata di una violenza spaventosa ».
Ma se la vede o la respinge?
«La respingo. Non ce la faccio. L’ho sentita raccontare tante volte. Ma non posso immaginarla. Io sono la mamma».
C’è stato qualcosa che non è stato fatto?
«Abbiamo avuto fiducia nella giustizia e la nostra fiducia è stata ripagata dal giudizio di Cassazione. Hanno scritto che gli indizi vanno valutati nel loro insieme e non singolarmente. Che ci sono elementi da approfondire, perizie da rifare».
La difesa si opporrà.
«Si è sempre opposta alle nostre richieste. Gian Luigi Tizzoni, nostro avvocato, ha fatto presente che la perizia sulla scarpa era incompleta e hanno detto che non serviva. Il capello nelle mani di Chiara non serviva, la bici nera non serviva. Ma come non serviva? Bisogna andare fino in fondo. Non si lasciano le cose a metà».
Cosa le ha dato fastidio nei processi?
«Non voglio polemizzare. Alberto aveva sul computer molte immagini pornografiche. Non so se mia figlia le ha viste. Ma dire che se le avesse viste sarebbe rimasta indifferente, questo no».
Lei ha visto quelle immagini?
«In aula le hanno mostrate. Erano molto forti. Chiara non avrebbe tollerato. Non poteva accettare che il suo ragazzo quello a cui lei voleva bene e con cui voleva fare una famiglia, perché questo era il suo sogno, tenesse roba del genere».
Avrebbe litigato?
«Mia figlia era calma e buona. Ma quando si arrabbiava si arrabbiava di brutto. Per una cosa del genere si sarebbe arrabbiata. E tanto».
Per la difesa sono indagini a senso unico.
«Non è vero. Hanno controllato tutto. Le nostre vite sono state passate ai raggi X».
Com’è stato il rapporto con i media?
«I fotografi mi rincorrevano per il paese. Ogni volta che andavo al cimitero c’era una giornalista, sempre la stessa, che mi aspettava là. Mi sentivo assediata. Ma ho imparato a conviverci». Com’è la tomba di Chiara?
«Sempre piena di fiori, foto, pupazzi, lettere. Ogni tanto svuoto tutto e lo metto nella camera di Chiara».
Ci fa vedere la stanza?
«È come l’ha lasciata lei, con un paio di jeans appoggiati su una sedia col biglietto scritto da lei: «accorciare 10 cm». Mi spiace, ma non entra nessuno».
Papà Giuseppe rimane in silenzio. È in piedi su un tappeto di petali davanti a una pianta di magnolia «È così», dice, «ci sono piante che a primavera hanno già perso i fiori». Sugli occhi blu, come quelli di Chiara scende un velo lucido. «Tante volte ai figli non si dicono certe cose, perché da genitore sai cos’è la vita, hai paura di illuderli, vorresti tenerli sempre coi piedi per terra. Oggi ho un rimorso. Ho tenuto dentro delle parole. Non ho detto a Chiara tutto quello che da padre le avrei voluto dire. Non le ho detto che gioia sia stata una figlia come lei».