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 2014  aprile 02 Mercoledì calendario

IO NON HO PAURA


Palermo, aprile
Mi chiedo spesso se è giusto andare avanti. Se lo è per la mia famiglia. A pensarci razionalmente forse no, ma poi un insieme di emozioni e di ricordi mi trascina a una sola risposta: ne vale la pena, è giusto così». Antonino Di Matteo detto Nino, 52 anni, è il pm che indaga sulla cosiddetta trattativa Statomafia (nel processo a carico dell’ex prefetto Mario Mori). Totò Riina lo vuole morto. E Totò ‘u curtu non è solo un boss. È il capo di Cosa nostra. Un uomo piccolo e tarchiato, astuto e feroce, colpevole di aver insanguinato la Sicilia e l’Italia intera. Colpevole di aver ordinato omicidi e stragi. «È stato un alternarsi di minacce e avvertimenti di vario tipo», ci dice Di Matteo in questa lunga ed esclusiva intervista-confessione: «Una sorta di escalation di scritti anonimi, prima recapitati presso il mio ufficio poi arrivati sulla scrivania di altri colleghi, ma sempre diretti a me. E spediti, infine, anche a casa mia. Non li ho contati, devo dire. Ma la tensione e il livello delle minacce sono saliti quando è iniziato questo processo».
Sarà per questi scritti inquietanti o per le chiare minacce di Riina (il quale di Nino Di Matteo vuole farne il «primo tonno, il tonno buono») che arrivare al secondo piano del tribunale di Palermo dove il magistrato ci aspetta per l’intervista diventa una trafila burocratica. Con controlli delle carte di identità, metal detector, tesserino dell’Ordine dei giornalisti da verificare e telefonate al caposcorta. Il tribunale sembra vigilato come Fort Knox da garitte con vetro antiproiettile, presidiate da due carabinieri presenti a ogni turno. È una sorta di dichiarazione di protezione, dall’ingresso verso la strada.
Aspettiamo fuori, ovviamente, la telefonata di via libera. Poi è un maresciallo ad accompagnarci, fra tornelli di sicurezza e saloni enormi e deserti, al secondo piano del tribunale, davanti a una porta blindata sorvegliata da tre telecamere. Ad aspettarci ci sono quattro uomini della scorta. E oltre la porta in ferro telecomandata, il magistrato che rappresenta la pubblica accusa nel processo per la trattativa Stato-mafia. Un uomo alto, in giacca e cravatta, che quasi sovrasta una scrivania invasa da codici e fascicoli. Ci guarda perplesso e sorride davanti alla frase che aprirà la nostra intervista.
Dottor Di Matteo, vivere sotto assedio non le mette ansia?
«È una condizione alla quale non si fa mai l’abitudine… Ho un profondo senso di riconoscenza nei confronti dei carabinieri che negli anni si sono occupati della mia protezione. So quali sono i loro sacrifici e so che la grande maggioranza di loro mi è accanto con approvazione, e non solo per dovere».
Lei vive da 21 anni sotto scorta. Così come le persone che le sono accanto. Addirittura i suoi figli, dopo la nascita, sono tornati a casa con la scorta…
«All’epoca lavoravo a Caltanissetta, sui processi per le stragi. I miei figli sono cresciuti con un padre circondato da carabinieri. Forse mi pesa pensare, e sapere, che il mio lavoro e le mie scelte hanno finito per condizionare anche la vita di chi mi è accanto. So però di aver trovato una profonda comunione di ideali». Valori e interessi che Nino Di Matteo ci dice di condividere con Anna, la donna che ha conosciuto nel 1989 ai tempi dell’università e che ha sposato nel ’96. Di lei e dei suoi due ragazzi si preoccupa dopo le intercettazioni di Totò Riina: «Sapevo che sarebbero state depositate e che inevitabilmente sarebbero state pubblicate dai giornali. Ho cercato di capire cosa potevo e dovevo dire ai miei familiari per tranquillizzarli ».
Ma lei, ascoltando le parole rabbiose di Riina, non ha avuto paura?
«Ho cercato di concentrarmi sul loro valore investigativo e processuale. Le ho ascoltate cercando di analizzarle e di studiarle come se non riguardassero la mia persona».
Sì, ma Riina ha minacciato lei. O meglio, ha fatto di più: ha chiesto la sua vita.
«Lo so. Ma chi si occupa da tanto tempo di queste vicende deve mettere in conto che l’organizzazione mafiosa possa desiderare o organizzare la sua eliminazione fisica. Certo non sarei credibile se dicessi di essere indifferente alla cosa… Ricordo le parole di Paolo Borsellino: il coraggio non è non avvertire la paura, sarebbe da sciocchi. Il coraggio sta nel far prevalere la consapevolezza di voler andare avanti a testa alta e senza subire condizionamenti. Quello che spero e cerco di fare».
La chiama “cosa” ma è un ordine di morte che arriva dal Capo dei Capi. E la tensione per questa “cosa” la si percepisce in questo tribunale, nelle facce dei ragazzi della scorta seduti fuori da questa stanza. Nella sua espressione...
«Riesco ancora a far prevalere, non solo sulla paura, ma anche sulle delusioni e le difficoltà, la passione per il mio lavoro. Cercare la verità è fondamentale per la storia del nostro Paese. Se si rinunciasse a fare piena luce su quanto avvenne negli anni delle stragi sarebbe un oblio gravissimo per la nostra democrazia. In passato sono stato più volte il pubblico accusatore di Riina, anche per le inchieste che hanno riguardato le stragi di Capaci e di via d’Amelio, e più volte mi sono trovato a dover dimostrare - e penso all’omicidio del giudice Antonino Saetta e alla strage di via Pipitone Federico in cui morì il giudice Rocco Chinnici - che l’ordine di uccidere era arrivato da Totò Riina in persona. Tante volte mi sono preoccupato assieme ad altri colleghi di dimostrare l’esistenza di questi ordini. In questo caso non devo dimostrare niente, per la prima volta è lo stesso Riina, con la sua voce, a tradirsi. A dare un chiaro ordine di morte».
Già…Un ordine che riguarda lei, però.
«Un ordine chiaro che Riina svela, durante l’ora d’aria, a un criminale di basso rango che uno come lui, il grande Capo dei Capi, non dovrebbe degnare neanche di uno sguardo. Eppure è a tal Alberto Lorusso che confida la sua rabbia e i suoi propositi».
Ora, Riina sarà pure un analfabeta ma di certo non è scemo: saprà di essere registrato. Saprà che anche il suo respiro è intercettato. Perché allora ordina la morte di un magistrato in un cortiletto del carcere di Opera? Potrebbe esserci la volontà del boss di dire a qualcuno che i corleonesi sono ancora pronti a eliminare chi dà fastidio?
«Ci sono indagini in corso anche da parte della Procura di Caltanissetta sulla vicenda delle intercettazioni. In ogni caso quelle conversazioni ci sembrano al momento, e fino a prova contraria, frutto di un atteggiamento e di una volontà spontaneamente trasmessi alla sua “dama di compagnia”, come si dice in gergo. Se fosse dimostrato il contrario sarebbe ugualmente preoccupante: si dovrebbe capire perché e con quali scopi precisi abbia pronunciato quelle parole».
La trattativa Stato-mafia. C’è stata una trattativa per fermare le stragi o per farle?
«Lei mi chiede di entrare nel cuore del processo e delle investigazioni. Non posso risponderle su quello che è successo, le dico soltanto che, teoricamente, le due cose non sarebbero incompatibili. Potrebbero essere due fasi diverse di uno stesso rapporto illecito. Non posso dire quello che ritengo né tantomeno quello che è oggetto delle indagini. Le dico che potrebbero essere due fasi di uno stesso rapporto e connubio criminale».
Dopo vent’anni abbiamo saputo che Paolo Borsellino stava indagando sulle otto pagine anonime arrivate dopo la strage di Capaci. Chi è il Corvo? Perché nessuno gli ha mai dato un nome?
«Dal fascicolo che abbiamo acquisito emerge che i Carabinieri, in particolare del Ros, immediatamente non attribuirono attendibilità a quello che veniva rappresentato nell’anonimo ma anzi, nella persona dell’allora generale Subranni, dopo la strage di Via D’Amelio sollecitarono al procuratore Vittorio Aliquò una rapida archiviazione del procedimento, ventilando che l’esposto anonimo mirasse a delegittimare le istituzioni e alcuni esponenti politici. E che fosse un tentativo di intorbidare le acque in un panorama già particolarmente grave e confuso come era quello del secondo semestre del ’92».
Il Corvo anticipa la cosiddetta trattativa. Scrive di rapporti fra politici e mafiosi. In quelle pagine ci sarebbe la notizia di un presunto incontro fra Totò Riina e Calogero Mannino, nella sacrestia di una chiesa di San Giuseppe Jato. E precedente la morte di Salvo Lima. Ha chiesto a Mannino di questo presunto incontro?
«A Calogero Mannino è stato contestato il reato di concorso nella minaccia a corpo politico dello Stato. Quando abbiamo inviato l’avviso di garanzia per interrogarlo, Mannino si è avvalso della facoltà di non rispondere, quindi le domande che avremmo voluto fare sulle vicende del ’92, fino a ora, non hanno avuto risposta. Perché l’allora indagato, oggi diventato imputato, si è avvalso di una facoltà che la legge gli attribuisce: quella di non rispondere».
Penso al Corvo. A tutti gli anonimi che in passato hanno preceduto stragi e attentati. Penso agli anonimi che ha ricevuto lei...
«Sorrido. Ma è vero. La sua è la sottolineatura di un dato oggettivo. In passato le vicende di anonimi informati e particolarmente gravi come quello del Corvo si sono intrecciate con stragi e attentati. Il primo scritto importante fu quello del cosiddetto corvo che accusava Giovanni Falcone di comportamenti assolutamente inventati, e gravi, e precedette la vicenda del fallito attentato all’Addaura. Anche l’altro, arrivato dopo la strage di Capaci. Sappiamo che il giudice Borsellino se ne stava occupando. Ma non abbiamo ancora elementi concreti per ritenere che Borsellino sia stato ucciso anche per quel motivo e per quelle sue indagini».
Il sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che ha “firmato” la lettera che annunciava la sua eliminazione ha anche minacciato di morte Massimo Ciancimino. Lei crede che il figlio di Don Vito sia in pericolo?
«Non parlo di indagini in corso. Ricordo però che è grazie alle sue dichiarazioni che l’inchiesta sulla trattativa è stata riaperta».
La sua inchiesta ha incontrato incomprensibili ostacoli, in molti vorrebbero una sua morte rapida e improvvisa. Pensi a Gabriele Chelazzi e a Loris D’Ambrosio… (Il pm Gabriele Chelazzi stava indagando sui mandanti esterni delle stragi, morì di infarto il 17 aprile 2003. Stroncato da un infarto pure Loris D’Ambrosio, il consigliere del presidente della Repubblica, al centro delle polemiche per le intercettazioni con l’ex ministro Nicola Mancino in riferimento all’inchiesta sulla trattativa Stato- mafia, ndr).
«Temo di non aver capito la domanda... (Poi afferra al volo e i suoi occhi ridono). No no, il mio cuore sta benissimo. Sono un po’ in sovrappeso ma ho poco tempo libero per fare sport. E ho rinunciato al jogging. Passeggiare nei corridoi del tribunale non serve a molto». Nel piccolo ufficio al secondo piano del tribunale di Palermo restiamo per ore. A parlare di mafia, di pentiti e falsi pentiti. Di mafiosi che sembrano scomparsi. Ma che vedremo apparire dal nulla come fantasmi. E colpire. È sempre così nel nostro Paese, l’emergenza si scopre sempre a giochi fatti. Perché è solo quando c’è il sangue che lo Stato si accorge della mafia. Speriamo che non sia così. Almeno questa volta.