Silvia Nucini, Vanity Fair 2/4/2014, 2 aprile 2014
SCUSA, HO UCCISO
VISTE DAL CIELO, LE MILLE COLLINE DL RUANDA sembrano un mare mosso su cui galleggiano migliaia di lumini votivi. Quando l’’aereo atterra ho l’irrazionale paura che l’impatto possa rovesciarne qualcuno e spegnerne la fiamma per sempre. Non succede, ma io rimango con la faccia incollata all’oblò. «Signora, prego, deve scendere».
Il Ruanda è il paese di cui tutti parlano abbassando di un tono la voce, come si fa con i malati gravi, i superstiti alle sciagure: sono ancora qui, ma non si sa davvero come stiano.
Vent’anni di convalescenza possono sembrare un tempo enorme: dipende da qual è stata la malattia. Quella di questo Paese è stato il genocidio, un concetto che nella sua lingua, il kinyarwanda, non si riesce a spiegare nemmeno con un giro di parole. Così lo chiama génocide anche chi il francese non lo sa. Un milione di morti – un abitante su cinque – in cento giorni di follia durante i quali il Paese, i villaggi e le famiglie stesse si sono spaccati a metà in una guerra fratricida che è stata solo l’apoteosi di una tensione etnica, a tratti violenta, cominciata da lontano.
Erano stati i colonizzatori belgi – per semplicità mentale e per abitudine: il Belgio stesso vive da sempre al suo interno la separazione tra fiamminghi e valloni – a dividere i ruandesi in hutu e tutsi, riducendo le loro differenze somatiche e sociali a razza. Così «tutsi» era passato da sinonimo di proprietario di vacche (dieci era il minimo per essere definito tale) e persona un po’ pigra («com’è hutu», si diceva, al contrario, dei neonati agitati) a tratto distintivo così essenziale da essere scritto sulla carta d’identità.
Una comunità che da secoli si mischiava convivendo pacificamente si era così ritrovata polarizzata, e dagli anni Sessanta i tentativi di un gruppo di prevalere sull’altro avevano dato vita a rivolte violente e all’esilio di molti tutsi nei Paesi confinanti.
Quando, il 6 aprile 1994, un missile ha abbattuto l’aereo del presidente (hutu) Habyarimana, era da poco iniziato un percorso di pacificazione, l’abbozzo di un governo transitorio che provasse a rappresentare tutti.
«Quando l’aereo è caduto» qui è l’inizio di ogni storia, e anche la sua fine. «Quando l’aereo è caduto stavo guardando una partita di calcio con un amico: Nigeria contro un’altra squadra, ci penso da vent’anni ma non me la ricordo mai. Lui disse: bene, con il presidente hutu morto, adesso per voi tutsi sarà tutto più semplice. Ricordo che risposi: ci uccideranno tutti. Ho quasi indovinato». È grazie al quasi che Jean Pierre Sagahutu adesso è qui a raccontare la sua storia, che è la storia di tutti i tutsi sopravvissuti grazie alla fortuna, ma più spesso grazie all’aiuto di famiglie hutu che non hanno voluto prestarsi a quella follia e hanno nascosto e protetto quelli che fino al giorno prima erano amici, vicini di casa o anche solo sconosciuti, pagando a volte, per questo, con la loro stessa vita.
Ora questo Paese in cui tutti hanno perso qualcosa – le persone che amavano, un arto, la voglia di vivere, la dignità – ha i tassi di crescita migliori di tutta l’Africa, una democrazia più di facciata che di sostanza e un grande dolore che scorre sotto, come un fiume carsico. I giovani – che si sentono ruandesi e basta – non capiscono: perché i loro padri hanno ucciso? Perché sono stati uccisi? Per cinque anni dopo il genocidio, a scuola non si è più studiata storia. Riconciliazione e normalizzazione sono state, da subito, le ossessioni del presidente Kagame. Ma si può davvero dimenticare e ricominciare?
ETIENNE GAHIGI CI CREDE TALMENTE TANTO da aver fatto della riconciliazione il perno su cui ruota la sua vita. Pastore protestante, nel ‘94 ha perso quasi tutta la sua famiglia. «Ero traumatizzato, come tutti». Per superare il dolore cerca di parlare con Dio e Dio, un giorno di due anni dopo, gli risponde. «Mi ha messo nel cuore il perdono». Va nel carcere dove sa che sono rinchiusi gli assassini della sua famiglia e comincia a parlare con loro e con gli altri prigionieri. Organizza incontri tra vittime e assassini: all’inizio hanno paura tutti. «Dopo un anno li ho messi insieme a costruire case. Costruivano e non sapevano bene cosa ne perché. Solo alla fine gli ho detto che quello era il villaggio di Nbyo e quelle sarebbero state le loro case, in cui avrebbero vissuto gli uni accanto agli altri. Perché si ricomincia davvero solo se ci si dice buongiorno tutte le mattine, se ci si presta lo zucchero perché è finito».
Accanto a Etienne c’è Mathias Sendegeya: è stato lui a uccidere quattro ragazzi e due donne della famiglia del pastore. «Li conoscevo», dice. «Ci avevano anche regalato una mucca, prima». Racconta della propaganda che induceva a pensare che quella fosse la cosa giusta, ma soprattutto dell’avidità che ha spinto lui e molti altri a uccidere: il patto era che le cose dei morti diventassero tue. «Pensare che l’ho fatto per avere degli oggetti mi fa ancora male». Padre Etienne deve andare, si stringono forte, Mathias si perde nell’abbraccio e chiude gli occhi, io li abbasso e penso che si fa anche così a dire: ti perdono.
Perdono è una parola che ricorre spesso nei racconti, la domanda che tutti si sono posti anche senza che nessuno gliela facesse, e a cui qualcuno ha risposto sì, qualcuno no. Frederique ha ucciso nove persone, è stato condannato nei Gacaca (tribunali popolari istituiti perché la giustizia ordinaria non riusciva a gestire la mole di tutti i processi del genocidio) e dice: «Mi sono perdonato io prima di andare a chiedere scusa alle famiglie delle persone che ho ammazzato. Un proverbio ruandese dice: non puoi dare a qualcuno quello che non hai». I Gacaca sono stati un momento importante per chiedere scusa, ma c’è chi l’ha fatto molto più tardi, una volta scontata la pena e tornato in libertà. Come Aloys Mutyribambe che dice: «Il mio modo di chiedere scusa è stato andare dalle famiglie delle persone uccise con la mia complicità – non ho mai ammazzato nessuno, ma ho cercato, e trovato, tanti che si nascondevano – e dire loro dove avevamo sepolto i corpi. È stato solo facendo questo che ho perdonato anche me stesso».
C’è una parola inglese che racconta un bel concetto, la parola è closure e tradurla con «chiusura» è farle un torto. Closure è la fine, l’elaborazione, lasciar andare. Ognuno chiude a suo modo. Molti qui hanno chiuso davvero solo quando sono riusciti a ritrovare i loro morti, toglierli dalle fosse comuni, dargli una degna sepoltura. Ritrovare ciò che rimaneva di suo padre è stata, per anni, l’ossessione di Jean Pierre. Per sapere dove fosse ha dovuto andare a parlare con l’uomo che l’aveva ucciso. «Non è stato facile. Mio padre stava in una fossa comune, in mezzo a centinaia di altri scheletri. Faceva il medico, portava gli occhialini. L’ho riconosciuto da quelli e da ciò che rimaneva della sua camicia. In tutto erano solo 800 grammi di ossa, ma è stato importante trovarle». Il papà di Leoncie Moukassine invece non si sa dove sia. Gliel’hanno ucciso, insieme al resto della famiglia, quando lei aveva quattro anni. «Mi hanno detto che forse è stato gettato nel fiume e io allora ogni mese di aprile ci butto un fiore: lo ricordo così».
Neanche Vincent Rwabukwisi l’hanno mai trovato. Era hutu, faceva il giornalista e, benché il presidente fosse hutu anche lui, Vincent lo criticava sempre, nei suoi pezzi e nelle sue vignette. Ricorda sua sorella Dany: «Scriveva un pezzo e lo mettevano in prigione. Usciva, ne scriveva un altro e lo rimettevano dentro. Tutti gli dicevano: fermati. E lui: non posso, lo devo fare». L’hanno ucciso l’11 aprile, l’hanno caricato in macchina «ma ha fatto poca strada perché il colpo di pistola si è sentito benissimo». Aveva 34 anni.
Gli hutu che hanno resistito e hanno protetto i tutsi li chiamano Intwari, i giusti. Epimaque Mussabyiman è uno di loro. A lui deve la vita la tutsi Theodosie, che anche adesso che ha la sua famiglia non dimentica di andare a trovare quest’uomo che chiama papà. «L’ho vista in mezzo ai cadaveri che la milizia ci aveva detto di seppellire. Era viva, diceva: vi prego, non uccidetemi. L’ho portata a casa mia, ho detto a tutti che era una mia nipote venuta da lontano. Le abbiamo rifatto i documenti scrivendo che era hutu. Ha vissuto con noi per dodici anni, come una figlia».
Non tutti i giusti sono giusti allo stesso modo, c’è anche chi – in una schizofrenia a noi incomprensibile – ha aiutato, ma ha anche ucciso. Come Pascal Simbikangwa, da poche settimane processato a Parigi – in base al principio di competenza universale che vale per i crimini più gravi come il genocidio – e condannato a 25 anni di carcere. E come Evariste Ntawanguanabose, che ci dà appuntamento a casa di Innocent, l’uomo a cui ha salvato la vita.
Mentre lui racconta aspettiamo Innocent, che non arriverà mai. Solo quando ci arrendiamo e ce ne andiamo ci rendiamo conto che Innocent era in casa, però non voleva farsi vedere con Evariste, che l’aveva salvato, ma evidentemente aveva ucciso qualcun altro perché era stato sedici anni in carcere per genocidio. Avevamo chiesto alla moglie di Innocent di farsi fare una foto con Evariste, lei aveva rifiutato: «Sono di questo villaggio, ho perso molte persone, magari anche per colpa sua».
A VOLTE LE CONTRADDIZIONI DI UN POPOLO – l’amore, l’odio, la paura, la fiducia – stanno tutte nel corpo gracile di una donna. Non fuori, ma dentro. A volte crescono e ti guardano e piangono, come faceva Giacinta tra le braccia di Lucy.
Lucy l’hanno stuprata in tanti, per giorni, ma lei sa con certezza chi è il padre, l’ultimo che l’ha fatto, che per lo meno non la picchiava e le dava da mangiare. Quando lui è scappato in Congo lei si è ritrovata con lo schifo per quella gravidanza e nessuna forza di andare ad abortire. Così è nata Giacinta, che di cognome fa Mukamana, «figlia di Dio» e non di uno stupro etnico. «Quando era piccola la allattavo, ma solo un po’, poi mi staccavo perché mi faceva impressione. La tenevo in braccio e le pizzicavo le braccia, volevo farle male. Non sono riuscita a volerle bene per i primi dieci anni di vita». Lucy – come molte donne stuprate durante il genocidio – ha l’Aids ed è sulla sua malattia che mamma e figlia trovano un posto dove incontrarsi. «Io stavo male e lei mi aiutava. Arrivava a casa da scuola, buttava la cartella all’ingresso e correva in camera mia a vedere come stavo».
E adesso?, chiedo. «Adesso è tutta la mia vita».
IL GIORNO IN CUI SONO TORNATA IN REDAZIONE Ibra, che lavora alla reception di Condé Nast, mi ha chiesto del mio viaggio in Ruanda. Lui è del Senegal, ma ogni cosa del suo continente lo appassiona.
Gli ho detto che era complicato, mi ha risposto poetico e vero, come solo un africano sa fare: «Quando butti un sasso nell’acqua, la superficie si muove e tutto si confonde. Poi l’acqua torna calma, ma quel sasso è lì, e l’acqua lo sa».