Marco De Martino, Vanity Fair 2/4/2014, 2 aprile 2014
VI SEMBRO CATTIVA?
[Intervista a Renata Adler] –
Ha ancora la treccia che le suggerì di portare richard avedon quando cominciò a fotografarla, trasformandola in un’icona del mondo intellettuale newyorkese: «Mi disse che aveva visto una ragazza a Parigi che girava così», racconta Renata Adler nel ristorante dell’Upper West Side di New York dove ci incontriamo. «Diventammo molto amici anche se nella prima foto che mi fece sembravo una terrorista dirottatrice. Quando protestai, lui mi disse: “Ok, ti farò una foto che piacerà anche a tua madre”».
Ora Renata Adler ha 75 anni, ma ascoltandola non è difficile immaginarla poco più che ventenne spedita dal New Yorker a raccontare il Vietnam, la Guerra dei sei giorni o la marcia per i diritti civili di Selma, in Alabama, dove si presentò in tacchi a spillo perché non voleva passare per un’attivista venuta da New York. Era l’epoca in cui era ospite dei salotti di Jackie Onassis e Oscar de la Renta, e animava le serate del club del libro della regina della vita sociale, Brooke Astor, che di lei diceva: «La persona più attraente e originale che conosco, un soffio di aria fresca».
Altri sarebbero rimasti per sempre in quella posizione di assoluto privilegio, ma non lei. Non ancora trentenne Renata Adler abbandonò il New Yorker per diventare la prima donna critica cinematografica del New York Times. Si fece subito notare. Un senatore protestò contro la sua recensione di Berretti verdi di John Wayne, di cui lei scriveva tra l’altro: «Un film così indicibile, così stupido, così marcio e falso in ogni dettaglio che... diventa un invito alla disperazione». 2001: Odissea nello spazio? «Un film così completamente assorbito nei suoi problemi, nel suo uso del colore e dello spazio, nella sua fanatica devozione al dettaglio della fantascienza, che finisce per collocarsi tra l’ipnotico e l’immensamente noioso». Il New York Magazine le dedicò la copertina: «La stravagante brillantezza di Renata Adler».
Altri sarebbero rimasti tranquilli a castigare Hollywood, ma la Adler dopo due anni tornò al New Yorker, scrisse un articolo al vetriolo contro la raccolta di recensioni di Pauline Kael, critica cinematografica del suo stesso giornale, e pochi anni dopo finì per scrivere un intero libro sul magazine, Gone: The Last Days of The New Yorker, guadagnandosi l’ira di una città. Nel frattempo aveva lavorato nella commissione d’inchiesta del Watergate, solo per concludere che Nixon venne costretto all’impeachment per il reato sbagliato: «Tutti entravano negli uffici altrui, ma lui ricevette più o meno indirettamente soldi dai sudvietnamiti, che avevano un interesse a proseguire la guerra». Renata Adler è abituata ad andare controcorrente. Ed è quindi con una certa sorpresa che anche lei ha accolto la campagna di stampa che ha chiesto a gran voce la ripubblicazione dei suoi libri. Mai ci eravamo annoiati, appena uscito da Mondadori, è un diario minimalista sulle idiosincrasie newyorkesi. Scritto nel 1976, ai recensori americani di oggi ricorda Lena Dunham, ma molte volte più brava dell’autrice di Girls. Tanto per far capire a chi è troppo giovane per sapere, altri tirano in ballo David Foster Wallace o Candace Bushnell, l’autrice di Sex and the City, ma molte volte più cinica. Negli stessi pezzi la Adler è descritta come il prototipo della donna difficile.
Si identifica in quello che dicono di lei?
«Le sembro una persona difficile?».
Per niente.
«Vede?».
Mi chiedo se cambia quando si mette a scrivere.
«No. Cioè, sì. Ma non sempre».
Demolì una sua collega, Pauline Kael, con un articolo che la rese famosa.
«Ma quello fu inevitabile. Io Pauline Kael la conoscevo poco, ma era diventata un monumento intoccabile, un mostro, tutti lo sapevano, e quando ricevetti il libro da recensire chiamai subito il mio editor che era anche il suo: “Bill, dammi una ragione al mondo per cui non dovrei scrivere una recensione negativa: questo libro è un condensato di tutto ciò che odio nello scrivere e nella critica”. Lui mi rispose: “Be’, almeno non è scritto da una liberal da limousine”. E in effetti quella era un’attenuante».
E allora perché scrisse un articolo così devastante?
«Il fatto è che a un certo punto mi ritrovo da sola davanti alla macchina per scrivere, e lì cominciano i problemi».
Anche al New York Times aveva avuto i suoi bei problemi.
«Cominciarono subito, quando andai al Moma a vedere film storici, e Variety scrisse che ero chiaramente inadatta all’incarico. Poi la United Artists comprò un’intera pagina sul New York Times per dire che le mie recensioni erano inaffidabili, per eccesso di stroncature. Il fatto è che non riuscivo a prendere sul serio Hollywood, e scrivere con così tanta frequenza mi distruggeva: l’unico vantaggio dello scrivere spesso era che potevo cancellare l’imbarazzo dell’ultimo pezzo con un nuovo articolo».
Intanto però la sua fama cresceva.
«Era un altro mondo, un’altra New York».
Me la racconti. Mi dica di Jackie Onassis.
«Una volta le dissi che mio figlio aveva problemi nella sua nuova scuola, i compagni lo prendevano in giro, e lei un giorno si presentò all’uscita e si sedette a parlare con noi: da quel giorno i problemi finirono».
Che ricordo ha di Brooke Astor?
«Mi ricordo le cene a casa sua, e un invitato che se la prese con me dicendo che parlavo troppo, ma in realtà era irritato perché era stato messo lontano da Brooke. L’amicizia con lei era fatta di piccoli gesti: la vigilia di Natale ci sentivamo vicine guardando ognuna nella propria casa Miracolo nella 34ª strada. Brooke sentiva una sorta di dovere morale di essere interessata all’arte. Di essere curiosa, e quindi genuinamente viva: l’epoca dorata di New York è finita con la sua morte, e con quella squallida guerra sui suoi soldi».
Al centro di quel mondo c’era il New Yorker, dove lavorava.
«E al centro del New Yorker c’era William Shawn, un direttore che è impossibile persino immaginare adesso. Lavoravano per lui i migliori scrittori d’America, e lui invece dei contratti utilizzava un sistema di crediti per cui potevano ritirare soldi a fronte della pubblicazione futura di un loro articolo. Tutti scrivevano pochissimo, e tra i collaboratori più vecchi c’era una sorta di gara per vedere chi sarebbe morto col più grande debito nei confronti del giornale. A un certo punto si era quasi diffusa la convinzione che pubblicare fosse volgare».
Un padre padrone?
«Sì, ma amorevolissimo, anche se i divani degli psicoanalisti della città erano pieni di pazienti che parlavano di Shawn. Io non ero una di loro solo perché eravamo amici. Un giorno mio padre mi disse: “Se devi essere così ossessionata dalla figura paterna perché non sei ossessionata da me?”. Dopo un’animata discussione, un collaboratore pensando di essere stato licenziato andò a lavorare a Newsweek, ma poi incontrò Shawn che gli chiese perché non veniva più in ufficio. Capì solo allora di avere ancora il posto».
C’è un suo articolo che non ha mai pubblicato?
«Una lunga inchiesta sul gruppo Bilderberg. Dopo un po’ che ci lavoravo cominciarono ad arrivarmi telefonate di minacce. Henry Kissinger, all’inizio molto disponibile, quando capì l’argomento si infuriò: forse era ancora traumatizzato dalla sua intervista con Oriana Fallaci. Gianni Agnelli prima acconsentì a un’intervista poi la cancellò».
Dopo il New Yorker lei ha smesso di scrivere.
«Ho smesso di pubblicare, non di scrivere. Forse ho anche scritto un nuovo romanzo. Ma non ne sono certa, devo confrontare il materiale con i miei libri che sono stati appena ripubblicati».
E c’è invece un articolo o un libro di cui si è pentita?
«Rimpiango solo alcune frasi formulate male, o uno sporadico errore sfuggito alla mia ossessiva attenzione al dettaglio. Ma sulle grandi scelte che ho fatto, sui libri e gli articoli che ho scritto, non ho niente di cui pentirmi. Tranne forse una cosa: se avessi la possibilità di riscriverli, sarei ancora più tagliente».