Massimo Lopes Pegna, SportWeek 29/3/2014, 29 marzo 2014
ALLARME COLPI DI TESTA
L’ufficio all’interno del Boston Medical Center, nel cuore del campus della Boston University, è piccolo e disadorno, ma solo perché la dottoressa Ann McKee ci si è trasferita da pochi giorni. Altrimenti, le sue pareti sarebbero ricoperte da poster horror: cervelli che sembrano bucherellati come un groviera da mozziconi di sigaretta, con vaste aree macchiate di una tinta color marrone inquietante. Il segnale eloquente della malattia.
È questa affascinante signora di 61 anni, alta, bionda e spiritosa, lo scienziato che con le sue ricerche, non troppo tempo fa, ha destabilizzato il football americano. Il suo lavoro, svolto insieme a un’équipe di colleghi, pubblicato nel gennaio 2013 su prestigiose riviste mediche, ha iniziato a dimostrare la relazione fra traumi cranici negli atleti e la Cte, l’acronimo per Chronic Traumatic Encephalopathy (Encefalopatia Cronica da Trauma): la patologia i cui sintomi sono frequentissimi soprattutto fra gli ex giocatori di football e spesso confusi con quelli della Sla.
Nonostante non ci sia ancora una conferma definitiva da parte del mondo scientifico, nell’agosto scorso la Nfl, la grande Lega Usa del football, ha risarcito a 4.500 ex giocatori che le avevano fatto causa, perché affetti da varie forme di malattie neurodegenerative, una cifra record di 765 milioni di dollari, grazie soprattutto agli studi della dottoressa McKee. «Immagino che sia qui per la Sla e il soccer», dice accogliendoci cordialmente. E aggiunge: «So che il numero dei calciatori affetti da quella patologia nel vostro Paese è molto più alto rispetto alle percentuali della cosiddetta popolazione normale».
Solo qualche settimana prima il New York Times aveva pubblicato un articolo in cui rivelava che dopo il football, la boxe, l’hockey e il rugby, la Cte era stata rilevata anche nel cervello di un calciatore morto di Sla nell’aprile del 2012 ad appena 29 anni. Una scoperta importante, perché fino a pochi mesi fa si riteneva che ci si potesse ammalare di Cte solo praticando sport violenti, come il pugilato, il football o l’hockey, appunto. Gli studi della dottoressa McKee sono indirizzati ora a individuare una relazione fra Cte e altre malattie neurodegenerative, fra cui la Sla. Se un giorno riuscirà a provarlo scientificamente sarebbe un gigantesco passo avanti per trovare una possibile cura.
Dottoressa McKee, partiamo dall’inizio: che cos’è la Cte?
«È un progressivo declino delle capacità neurologiche, provocato da una serie ripetuta di traumi, spesso di lieve entità. Si caratterizza con il deposito di una proteina, chiamata Tau, che è una normale componente del sistema nervoso con il compito di stabilizzarne le cellule. Ma dopo una concussione o una sub-concussione, insomma a causa di una botta in testa, in qualche individuo, non in tutti, questa proteina inizia a depositarsi nel cervello e a espandersi fino ad avvelenarne le cellule. Perché dopo un trauma, il Tau si deforma, subisce un cambiamento chimico, fino a diventare tossico».
Quali sono i sintomi tipici di chi è affetto da Cte?
«C’è una progressiva perdita della memoria o dell’abilità di pensare con chiarezza. Ma nella sua fase iniziale si può manifestare come un disturbo psichiatrico: sbalzi di umore, irritabilità, aggressività, disinibizione. Ci sono quattro gradi con crescente gravità. Il primo, quando ci sono pochi depositi di Tau, non dà particolari sintomi. Ma già al secondo stadio la persona può diventare violenta o addirittura arrivare al suicidio».
Il problema è che la Cte si può solo diagnosticare post-mortem, giusto?
«Esatto. È il principale aspetto su cui stiamo lavorando: identificare la patologia quando l’individuo è ancora in vita. Per ora, invece, dobbiamo aspettare che la persona muoia e la famiglia ci doni il suo cervello. Lo analizziamo al microscopio e macchiamo con i marker le differenti proteine, fra cui il Tau».
Naturalmente, non c’è una cura.
«No, e non possiamo trattare neppure i sintomi. Addirittura c’è ancora difficoltà a distinguerla da Alzheimer e Parkinson. Una delle ragioni per cui stiamo cercando di diagnosticare il Cte in vita è proprio perché si può confondere con problemi psichiatrici. Sarebbe utile per confortare i familiari che improvvisamente si trovano accanto una persona cambiata, più aggressiva. Per poi scoprire che era così solo a causa di lesioni cerebrali».
Dottoressa McKee, c’è un legame fra Cte e Sia?
«È esattamente ciò che sto studiando. Sulla materia, ci sono controversie. Parlerei piuttosto di malattie degenerative dei motoneuroni, ma è solo una questione di terminologia. Per quasi sei anni, ho collezionato cervelli e ho trovato che alcune persone con Cte sviluppano problemi motori clinicamente uguali a quelli della Sia. Per questo spesso vengono diagnosticati come affetti da questa patologia. Al momento dell’autopsia, però, emergono le lesioni della Cte, con i tipici accumuli di Tau che non ci sono invece nei pazienti di Sla. Inoltre, possono essere presenti anche altre proteine a livello del midollo spinale, associate alla degenerazione delle funzioni motorie».
Anche Patrick Grange, il primo calciatore esaminato dalla sua équipe, era malato di Sla.
«Sì. Avevamo letto che era affetto da Sla e abbiamo chiesto ai familiari di donare il suo cervello. Abbiamo trovato un livello di Cte altissimo, considerando che aveva appena 29 anni. Il suo cervello era deformato anche nella parte del midollo spinale vicino alla nuca. È stato normale pensare che il motivo per cui avesse sviluppato una malattia dei motoneuroni fosse riconducibile ai tanti traumi subiti».
Si può dunque ipotizzare che nel suo caso la Cte avesse poi innescato la Sla?
«Potrebbe essere, ma non lo sappiamo ancora. Grange aveva danni alla parte frontale, molto più piccola dello standard. Abbiamo saputo che fin dall’età di tre anni colpiva continuamente la palla con la testa».
Il fatto che la percentuale di calciatori affetti da Sla sia sopra la norma della popolazione normale può essere ricondotta alle concussioni e subconcussioni che inevitabilmente si subiscono nell’arco di una carriera?
«È una delle supposizioni, ma non lo possiamo affermare con certezza. Sappiamo, invece, che colpendo la palla di testa si ha un grosso impatto a livello cervicale. Una delle ipotesi è che quei traumi possano danneggiare il midollo spinale in quel punto, da dove si teorizza potrebbe partire la Sla. Ma è ancora tutto da provare».
Il primo caso accertato di Cte è del 2003?
«Sì. Fino a quel momento avevo analizzato cervelli per oltre trent’anni, occupandomi principalmente di Alzheimer. Non avevo mai studiato gli effetti dei traumi. Nel 2003 avevo in osservazione il cervello di un ex pugile piuttosto famoso (Paul Pender, ex campione mondiale dei medi; ndr) a cui era stato diagnosticato l’Alzheimer. Una volta fatta l’autopsia fu chiaro che era affetto da qualcos’altro: c’era Tau dappertutto. È allora che ho cominciato a interessarmi alla Cte. I sintomi erano stati descritti nel 1920, legati alle conseguenze della boxe (la Cte era conosciuta come Dementia Pugilistica; ndr). C’erano stati una cinquantina di casi riportati fra il 1920 e oggi: non molti. Poi ho esaminato un altro ex del ring, anche lui arrivato con una diagnosi di Alzheimer. Ora, però, si parla di pazienti molto più giovani. Poi nel 2005 qualche giocatore di football iniziò a descrivere pubblicamente i propri sintomi. Ma ho dovuto aspettare fino al 2008 per avere sul tavolo un campione di quello sport. È cominciata così».
Dunque la difficoltà maggiore è stata quella di avere cervelli da esaminare?
«Esatto. Ora ne abbiamo due alla settimana, quasi sempre provenienti dal football. Sarebbe utile poter esaminare anche i cervelli di quelli che non avevano manifestato sintomi della malattia».
Quanti casi ha dovuto collezionare per pubblicare il suo lavoro e avere in mano una sorta di prova contro gli sport violenti?
«Inizialmente cercammo di pubblicare un rapporto con in mano cinque casi, ma non ce lo consentirono. “Troppo pochi, sono solo coincidenze”, dicevano. Avevo bisogno di più elementi, più cervelli. Ho aspettato quasi due anni per mettere insieme 68 cartelle. Perlopiù giocatori di football, ma anche di hockey, qualcuno di rugby e pugili. Non tutti i cervelli che arrivano sono affetti da Cte, ma quei 68 su poco più di 100 analizzati lo erano. Riportammo che più del 95% di chi militava nella Nfl, fra quelli esaminati, erano malati. Ma le parlo di tanti livelli, a volte con un accenno di patologia e a volte con una presenza preponderante».
Quale sarà il passo successivo della sua ricerca?
«Identificare la malattia nelle persone ancora in vita. Stiamo lavorando su una speciale risonanza che potrebbe essere pronta entro i prossimi due anni. Sarebbe fondamentale per capire come la patologia inizia e si sviluppa. Per ora, ovviamente, possiamo traumatizzare soltanto le cavie. Se potessimo stabilire con certezza che un trauma può innescare la Sla, potremmo seguire lo sviluppo della malattia e provare a combatterla».
Però a fronte dei molti giocatori di football affetti da Cte, ce ne sono centinaia che stanno bene. Come si spiega?
«Perché magari solo alcuni sono geneticamente predisposti. Se riuscissimo a individuare questi soggetti, potremmo aiutarli. A chi ha un alto rischio genetico di sviluppare la malattia, potremmo sconsigliare il football. Qualcuno afferma che una maggiore predisposizione potrebbe esserci per via del doping. Ma anche questo è da dimostrare».
Con il calcio, come ha fatto con il football, dovrà mettere assieme un bel numero di cervelli prima di poter spaventare la Fifa?
Ride. «Immagino che alla Fifa non piacerebbe ascoltare certe cose. Di Patrick Grange sappiamo che aveva iniziato a tre anni a colpire la palla di testa e forse questo spiega il perché delle sue lesioni cerebrali. Abbiamo bisogno di più dati per esserne sicuri. Fra i cervelli promessi abbiamo quello di qualche altro calciatore. È fondamentale per noi analizzarne il più possibile».
Ma se riuscirà a stabilire scientificamente che i colpi di testa nel calcio sono dannosi, che cosa si potrà fare?
«Si potrebbe cambiare la regola: vietato l’uso della testa, così come non si possono usare le mani. O più realisticamente si potrebbe limitare il suo utilizzo. Magari proibirlo a livello giovanile. Perché si ritiene che su un bambino ancora in via di sviluppo il trauma abbia effetti ben più dannosi».
Il grande ex quarterback dei Pittsburgh Steelers, Terry Bradshaw, che ha ammesso di avere qualche sintomo di amnesia, sostiene che fra dieci anni si giocherà un football diverso.
«Sono d’accordo. Il football è uno sport molto violento: ogni azione si conclude con un placcaggio o una collisione. Difficile pensare di eliminarle. Però potremmo ridurre gli impatti nel corso degli allenamenti, anche se la maggioranza delle concussioni avviene in partita. Quarant’anni fa, mio fratello in college disputava otto partite di campionato e si allenava due settimane prima dell’inizio della stagione. Ora si gioca molto di più e trovi ragazzi da un quintale e mezzo già nei campionati liceali. Sì, bisognerà cambiare qualcosa».
Il presidente Barack Obama ha detto che se avesse un figlio maschio gli impedirebbe di giocare a football.
«La trovo una frase bellissima ed è stato bravo a dirla».
Ha un figlio che faceva il portiere, ma a lei sarebbe piaciuto che giocasse a football. Vero?
«Sì, ma a quei tempi ancora non sapevo. Era prima che iniziassi le mie ricerche. Ora sono felice per quella scelta, oggi non lo farei giocare. Ma è solo la mia opinione personale. Sappiamo che ci sono rischi, ma non quanto siano grandi. Inoltre, non credo che possiamo indossare un casco per qualsiasi cosa facciamo nella nostra vita, persino la più normale. Non necessariamente praticando uno sport».