Giuseppe Galasso, Corriere della Sera 2/4/2014, 2 aprile 2014
LE GOFF – LA FEDE, IL DENARO, I SOGNI COSÌ ESPLORÒ L’ANIMA DELL’UMANITÀ MEDIEVALE
Nella grande stagione storiografica francese del Novecento, maturata già dall’indomani della Prima guerra mondiale e compiutamente sviluppatasi dopo la Seconda, il nome di Jacques Le Goff, scomparso ieri all’età di 90 anni, brilla con una luce particolare nel contesto internazionale. Una luce resa ancora più viva dagli uffici di alta responsabilità da lui avuti nell’organizzazione culturale del suo Paese, dalla direzione della École des hautes études en sciences sociales, vera fucina di studiosi che hanno lasciato il segno nel campo della propria attività, alla condirezione della rivista storica francese, che ha avuto tra il 1950 e il 1980 una vera leadership nella storiografia contemporanea, ossia le quasi mitiche «Annales». Una luce confermata dalla diffusione, certo fuori del comune, del suo nome e dei suoi libri, per cui è forse banale, ma opportuno, ricordare che egli è stato uno degli scrittori di storia più noti su scala mondiale.
Le «Annales» non connotano, peraltro, per intero il percorso formativo della sua personalità di studioso. Egli stesso ricordava di essere partito nei suoi studi, sotto la guida di Charles-Edmond Perrin, che definiva «maestro rigoroso e liberale, grande figura di una università che non esiste più», in direzione di «una storia delle idee molto tradizionale». Né tutto di quella partenza si sarebbe poi rivelato, a mio avviso, caduco nel prosieguo della sua attività. Egli stesso avrebbe precisato di essersi fin dall’inizio interessato alle idee in quanto erano «incarnate attraverso istituzioni e uomini in seno alla società in cui le une e gli altri agivano». Questa nota del rapporto intimo, funzionale tra idee e società avrebbe poi resistito in lui e avrebbe molto conferito alla grande cifra innovativa delle sue ricerche e delle sue ricostruzioni.
Certo, gli giovò molto in questo potenziamento e sviluppo delle sue native doti di grande storico lo stretto rapporto che ebbe con gli ambienti e gli esponenti delle «Annales» nella fase tanto intensa in cui, alla metà degli anni Cinquanta, si passò dalla influenza di Lucien Febvre — il sodale di Marc Bloch e, con lui, fin dal 1929 cofondatore della rivista — a quella non meno originale e feconda di Fernand Braudel. Nelle «Annales» Le Goff stette e lavorò, però, in maniera tale da non poter essere considerato un semplice prosecutore dei grandi nomi, numi tutelari ed eponimi di quella rivista, che solo nell’ultimo ventennio del Novecento diede chiari segni di appannamento, se non di esaurimento, della grande funzione svolta fino ad allora. Non per nulla André Bourguière, ottimo conoscitore della materia, riferiva come molti attribuivano a Le Goff e a Emmanuel Le Roy Ladurie il mutamento di indirizzo delle «Annales» negli anni Settanta: un mutamento dalla visione della dinamica dialettica dell’economico e del sociale, propria di Bloch e di Febvre, all’attenzione a un «economico puro» fatto di metodologie e procedure statistico-quantitative (Le Roy Ladurie) o a temi antropologici e antropologico-culturali (Le Goff) o decisamente strutturalistici.
L’antropologia di Le Goff non è mai stata, peraltro, di scuola e, a mio avviso, neppure ha fatto veramente scuola. È stata una versione originale e ricchissima del suo sostanziale umanesimo storiografico. Ossia, a evitare equivoci, della sua incontenibile e sempre varia passione per ciò che nella storia è il protagonismo dell’uomo, del quale egli avvertiva con profonda simpateticità la ricchissima, anche quando è drammaticamente agitata, capacità di vivere e di creare gli strumenti, le idee e le passioni del suo vivere. Sarebbe giunto a chiedersi se si potesse parlare di storia per altro che per l’uomo. E, invero, sarebbe stato difficile, senza questo senso profondo della dimensione individuale, personale dell’umano scrivere le grandi biografie che egli ha scritto su Luigi IX e su san Francesco, ma non meno difficile sarebbe stato scrivere i saggi sul tempo del mercante e sul tempo della Chiesa, sul sogno nella cultura e nell’immaginario collettivo dell’Occidente medievale, sul passaggio dal tempo medievale al tempo moderno, sul senso e l’idea di lavoro e professione nei manuali dei confessori medievali, sulla concezione del denaro nella società preindustriale, sull’invenzione e la nascita dell’idea di Purgatorio nella Cristianità medievale: che è solo una parte di quel che di lui a questo proposito si può ricordare.
Grazie a questo scavo in profondità di nuove tematiche e vie di ricerca, Le Goff ha potuto davvero innovare notevolmente la storiografia contemporanea sul mondo medievale. Io trovo, tuttavia, limitativa la definizione di lui soltanto come medievista. È una influenza più sottile e più generale quella che egli ha avuto sulla storiografia contemporanea, nella quale ha segnato svolte che il corso degli studi potrà in futuro — come suole accadere nella inesauribile e inarrestabile dialettica della storia tutta, non solo quella culturale, dell’uomo — anche del tutto rovesciare o, magari, dimenticare, ma della quale non potrà mai più cancellare l’ampliamento dell’orizzonte storiografico e del patrimonio di nozioni e di idee, di analisi e di interpretazione storiche, che egli ha avuto il merito di proporre e imporre nel suo tempo.
Si può osservare che lezione e innovazione storiografica sono affidate ai suoi lavori di ricerca e di rappresentazione storica di gran lunga di più che alle sue pagine di teoria e generale metodologia storiografica; ed è osservazione fondata, ma non tale da mutare il ruolo che egli si è acquistato con la sua inesausta capacità di lavoro, concretatasi in una serie foltissima di scritti per cui è stato fra gli scrittori contemporanei di storia più prolifici.
Non ci si può congedare da lui, però, senza ricordare l’uomo che egli era. Meridionale (di Tolone), aveva un cognome bretone («il fabbro»), e davvero dava l’impressione di portare in sé la ricchezza della fantasia e la mobilità intelligente e penetrante di visione propria del Sud e, insieme, la fervida immaginazione e la sensibilità agli elementi prelogici e ai sentieri profondi della sensibilità, proprie dell’umanità e della tradizione celtica. Tutto ciò si traduceva in un’istintiva joie de vivre , che trovava in una grandiosa passione della buona tavola e in una capacità e felicità straordinarie di rapporti umani le sue più immediate connotazioni. E quanta parte della sua opera storiografica si comprendeva attraverso la grande finestra di questa sua umanità!
Lo rimpiangeremo, certo, per tutto ciò. Ma, per fortuna, la sua vita di studioso è stata completa al di là dei limiti insuperabili di quella dell’uomo. L’edificio storiografico da lui eretto in sessant’anni ha il pregio di un’esperienza compiuta, del tutto risolta nelle sue pagine e tradotta in un messaggio che, come si è detto, non è affatto solo storiografico.