Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 2/4/2014, 2 aprile 2014
IL PRIMO MENEGHELLO: UN ARTISTA BAMBINO E LE PICCOLE STORIE DI MALO
«Questa sera io non so cosa a scrivere e alora o fato queste parole domani di sera speriamo che ci suceda qual che cosa». Era il 14 aprile 1928 quando, con una grafia incerta e un mucchio di errori, lo scolaretto Luigi Meneghello riempì così la pagina 7 del suo diario.
Da due giorni, i quotidiani traboccavano di indignazione per l’attentato dinamitardo contro Vittorio Emanuele III alla Fiera di Milano in cui erano morte venti persone e moltissime altre erano rimaste ferite. Un bilancio pesantissimo e destinato ad aggravarsi. Il giorno prima, il «Corriere» aveva titolato: «La virile reazione della cittadinanza milanese all’atto terroristico presso la Fiera». Quella mattina: «Il Re lascia la Lombardia dopo nuovi imponenti manifestazioni d’affetto». In Italia non si parlava d’altro. Ma cosa ne sapeva un bambino di sei anni compiuti da un paio di mesi che viveva col papà, la mamma e il fratellino Bruno in contrada San Bernardino a Malo, nella campagna vicentina non ancora stravolta dallo sviluppo industriale?
È pieno di errori quel piccolo diario dalla copertina scarlatta che la maestra Prospera avrebbe tempestato di cancellazioni e sottolineature con la matita rossa e blu. Per non dire del miscuglio (anzi, lui avrebbe detto «smisioto») di italiano e di dialetto impastati insieme. Insomma, non c’è velleità letteraria o editoriale nella riscoperta di questo libriccino ritrovato per caso e ristampato dal Comune di Malo uguale identico all’originale, comprese le pagine vuote, a mezzo secolo dalla pubblicazione dei due libri forse più famosi dello scrittore vicentino: Libera nos a malo e Piccoli maestri .
Sono solo pensierini di un bambino della prima elementare, figlio di un meccanico che aveva con i fratelli un’officina e una piccola linea di torpedoni, uno scolaretto che certo non immaginava che sarebbe diventato docente universitario a Reading, collaboratore della Bbc, scrittore di successo. «Questa sera il mio fratello Bruno non ha voluto mangiare il caffè ed io continuavo a dirli bevi il caffe». «Questa sera andando fuori mi sembrava daver fredo le ganbe e volevo a Metermi le calse di lana». «Questa sera sono andato aleto e quando sono levato su la mia nonna mi dise che non sono andato a dottrina». «Quest’oggi il falegname ha fatto la scala nuova della galetiera». Il deposito dove le famiglie di allora tenevano i bachi da seta.
Storie piccolissime di vita quotidiana. Senza neppure l’eco lontana dell’indottrinamento di regime. Men che meno il rispetto per l’ordine mussoliniano di scrivere sempre accanto alla data, in numeri romani, l’anno dell’era fascista, che era il VI. Solo un piccolo cenno il 21 aprile: «Questa volta in vece sono stato a casa perche e il Natale di Roma. e anno deto che facevano il corteo».
Sfogliando il diario, però (forse per autosuggestione, chissà…), ti par di riconoscere due delle cose che hanno fatto grande Meneghello. La prima è la curiosità abbinata a uno stupefacente spirito di osservazione per i fatti di tutti i giorni che avrebbe poi travasato nei suoi libri, come appunto Libera nos a Malo : «Qui in paese quando ero bambino c’era un Dio che abitava in chiesa, negli spazi immensi sopra l’altar maggiore dove si vedeva infatti sospeso in alto un suo fiero ritratto tra i raggi di legno dorato. Era vecchio ma molto in gamba (certo meno vecchio di San Giuseppe) e severissimo; era incredibilmente perspicace e per questo lo chiamavano onnisciente, e infatti sapeva tutto e, peggio, vedeva tutto».
La seconda è l’arte innata, che avrebbe affinato negli anni, di mischiare, come forse nessun altro ha saputo fare, due delle sue lingue più amate e poi studiate, il dialetto veneto e l’italiano. La terza, come noto, sarebbe stata l’inglese. Che lui spiegava di conoscere e assaporare fino in fondo proprio perché era cresciuto imparando filastrocche come «potacio batòcio spuacio pastròcio / balòco sgnaròco sogato pèocio…»
Per questo non capiva le famiglie di un Veneto arricchito che si liberavano del dialetto come di un vecchio comò e chiamavano i figli Kevin invece di Bepi e Ketty invece di Catina o perfino, a Chioggia, «Mongomericlif», che nell’intenzione della madre sarebbe stato «Montgomery Clift Boscolo»: «Se oggi sono padrone non solo dell’italiano ma anche dell’inglese è perché sono padrone del dialetto. È vero, però, che in questa rimozione c’entra anche, benché inespressa, un’altra preoccupazione molto più profonda: farla finita con ogni richiamo al mondo della povertà, delle strettezze e delle tribolazioni, sentite come “cose in dialetto”. L’ho scritto: “Ora che abbiamo cominciato a mutilare i bambini, bisogna rassegnarsi al pensiero che la nostra lingua morirà presto, non c’è niente da fare”. E non perderemo solo una lingua ma “cose” che possono esser dette “solo” in quella lingua». Esiste forse una sola macchia al mondo, per quanto sporca, unta e appiccicosa, che possa valere uno «spotacio»?
E lì, in quei disegnini e quei pensierini, sembra di risentire lui quando, ormai anziano, si lanciò a spiegare la differenza tra l’uccellino e l’«oseleto»: «Vedi, l’”uccellino” in italiano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo di un aggeggino di smalto e oro. Vuoi mettere la differenza con l’”oseléto” veneto? Annuncia la primavera e ha una qualità che all’altro manca: è vivo».