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 2014  aprile 02 Mercoledì calendario

UN DIVARIO SEMPRE PIÙ PERICOLOSO


Questa è la storia di Joe. E di un paese, gli Stati Uniti, che si sta spaccando in due.
Conobbi Joe per la prima volta circa un anno fa quando andai a vivere a Tribeca, il bel quartiere nel Sud di Manhattan. Joe stava vicino al semaforo del mio nuovo palazzo – un uomo di colore enorme con un piumone gigantesco che chiedeva ai passanti qualche dollaro o qualcosa da mangiare.
Non sembrava avere gran successo. Alla vista di Joe, le madri con i fisici scolpiti dallo yoga spingevano le carrozzine-limousine un po’ più velocemente, i teenager benestanti si rifugiavano nei cuffioni dell’ipod, e i professionisti un po’ yuppie come me affettavano un’aria di superiorità, troppo impegnati per perdere tempo con un barbone.
Politici ed intellettuali continuano a parlare delle ineguaglianze sociali e finanziarie nel cuore dell’economia più grande del pianeta. Il presidente Obama ne ha persino discusso con il Papa. Ma c’è poco da dire quando un’angolo di Tribeca – non il Bronx, i quartieri-sparatoria di Washington o i ghetti di Los Angeles – si trasforma in laboratorio all’aria aperta della disparità tra ricchi e poveri.
Per fortuna, Joe non si perdeva mai d’animo. Come gli impiegati dell’ufficio governativo di fronte, arrivava al suo angolo alle 9 e se ne andava, chissà dove, verso le 18. L’unica differenza era che al weekend lui c’era, mentre di statali e parastatali non se ne vedeva nemmeno uno.
Una volta mi fermai nell’ufficio d’angolo di Joe perché volevo dargli dei soldi ma, come spesso capita in quest’era della carta di credito, non avevo dollari nel portafoglio. Goffamente, gli offrii la mia mela – lo snack «sano» degli yuppie. Joe la prese, la guardò e disse semplicemente: «Thanks man» e mi lanciò uno sguardo come a dire: «Sei ancora qui? Non hai un lavoro?».
All’inizio di questo durissimo inverno newyorchese, Joe sparì. E’ da allora che non lo vedo. Per tenermi la coscienza a posto, mi dico che sarà in un ospizio per senzatetto, protetto dal freddo polare e con cibo tutti i giorni. O che è emigrato in posti più caldi e che un giorno lo incontrerò quando vado a San Francisco o Miami per lavoro.
La realtà è probabilmente molto peggiore e non solo per Joe. Gli Stati Uniti di oggi non sono più il «melting pot», il crogiolo di etnie, culture e fattori economici che contribuì a far grande l’America. Gli Usa di oggi sono un’ascensore fermo all’ultimo piano. Chi è su e su e chi è giù è giù.
I numeri la dicono lunga. La quota di reddito controllata dal 10% più ricco è salita da circa il 30% al 48% tra il 1980 e il 2012 secondo il Fondo Monetario Internazionale. L’1% degli straricchi – quelli che scatenano le ire dei ragazzi di Occupy – controlla quasi il 20% della ricchezza nazionale, mentre lo 0,1% dei super-ricchi ha più del 10%, cinque volte di più di quello che aveva nel 1980.
Vista dai piani bassi, la situazione è dickensiana: nel 2012 più di 17 milioni di americani – circa il 15% della popolazione – «ha avuto qualche difficoltà nel procurare abbastanza cibo per tutta la famiglia a causa della mancanza di risorse economiche», a detta del ministero dell’Agricoltura Usa.
Sono cifre che è difficile riconciliare con l’America di Wall Street e Hollywood, di Facebook e degli occhiali factotum di Google. Come mi ha detto un capo di una banca di Wall Street – uno dei pochi che su questi temi riflette: «Non è nemmeno una questione morale. Prima di arrivare alla morale, questa è una questione economica. Avere una porzione così grande della popolazione in questo stato è una zavorra enorme per la crescita».
Il problema è che politici, economisti e persino gran parte della popolazione non hanno la più pallida idea di come risolvere la situazione.
Obama ha proclamato che le diseguaglianze economiche sono «la sfida fondamentale dei nostri tempi» ma le ricette sia della destra che della sinistra sono prevedibili e poco utili.
La sinistra, come sempre, parla di tasse: far pagare di più milionari e aziende. E’ il mantra del guru economico della sinistra Larry Summers, l’ex segretario del Tesoro di Clinton, e dell’economista francese Thomas Piketty, il cui libro «Capitale nel ventunesimo secolo» sta diventando la bibbia dei benpensanti americani.
A differenza dell’Europa, però, negli Usa questa proposta fa infuriare sia ricchi che poveri. I ricchi perché la vedono come un assalto statalista al benessere per cui hanno lavorato per anni, e i poveri perché diluisce l’idea di un «sogno americano» che permette a chiunque di fare soldi e goderseli senza preoccuparsi del governo.
La destra parla, essenzialmente, di laissez-faire. La crescita economica, dicono le menti fini del partito repubblicano, cura tutti i mali. Se il governo si toglie di mezzo e il paese ricomincia a crescere, a vincere saranno tutti, ricchi e poveri. Purtroppo, non ci sono le prove. I dati indicano che la sperequazione sociale in America è cresciuta anche quando l’economia tirava. Anzi. In momenti di crescita, il capitale (le aziende, gli imprenditori, Wall Street) ha guadagnato di più della classe lavoratrice.
Un paese spaccato dalla faglia del reddito è anche diviso su come colmare quel divario. Quando il Pew Research Center ha chiesto agli americani se pensavano che nell’ultimo decennio la differenza tra ricchi e poveri fosse cresciuta, il 65% ha detto sì. Ma alla domanda: «una persona è povera a causa di circostanze che non può controllare», il 50% ha detto sì e l’altra metà a detto no.
Fino a quando gli americani non si mettono d’accordo con se stessi su come disinnescare questa mina vagante, Joe e l’economia Usa non hanno molte speranze.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziariodel Wall Street Journal.Francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72