Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 2/4/2014, 2 aprile 2014
“LA NOSTALGIA È NATURALE, MA IL PASSATO NON È IL MEGLIO”
[Robert De Niro]
Con le finestre sui campi verdi, le pecore in lontananza e i pastori in divisa a instradare vanamente il gregge umano in rumoroso visibilio per il rapper Moreno di Amici, la Tiburtina dei silos, delle fabbriche occupate e della città che si protende verso la periferia senza rispetto per la propria storia, è sempre la “consolare” descritta da Corrado Guzzanti. Quella in cui “pè fa un metro” serve un pieno di benzina e in cui, come nella “Little Italy” del primo film di Scorsese o nella visione di Raymond Chandler, desolazione e necessità stringono patti inconfessabili: “È attraverso certe strade squallide che un uomo deve inerpicarsi”. Robert De Niro ha le scarpe consumate e dal 1973, la stagione di Mean streets, ha camminato a lungo. Protetto da vetri scuri, con un cappello olivastro da castrista, non guida più il taxi per cui quasi 40 anni fa, nel dargli un ruolo chiave nella sua filmografia, Scorsese lo costrinse a prendere regolare licenza dal comune di New York. Ma è sempre cinema, negli studi Titanus in cui nei Sessanta si giravano i Peplum con Ercole e Zorro a duellare nella campagna romana, e l’aspirazione di Bob, superate le colonne d’Ercole dei 70, è la stessa che almeno inizialmente, prima di perdere ogni fiducia nei suoi simili, animava il suo psicotico reduce a tassametro Travis Bickle: “Bisogna cercare di avvicinarsi alle altre persone”.
Gli “Amici” di Bob
Oltre i cancelli, lo aspettano adolescenti e genitori indisposti a una serena valutazione dell’anagrafe. De Niro firma autografi e si presta a un paio di foto prima che un cordone presidenziale lo inglobi e ne rapisca l’icona per farlo precipitare in un caravan che già dal nome: “Cruise air xl” spiega come non tutte le stelle siano meteore passeggere. Sono passati i decenni e anche l’attore che ha lavorato con Bertolucci, Cimino, Coppola ed Elia Kazan, mosso da sincera curiosità, ha spostato il suo Fronte del porto più in là. La stazione odierna si chiama Maria De Filippi. La donna che con la sua società di produzione, “Fascino”, porta i premi Oscar a Roma, rianima la dolce vita e forte di una credibilità tenuta in piedi non solo dallo share, scommette, da Al Pacino e McConaughey, sulla qualità dei suoi ospiti. Per De Niro un camerino semplice. Tra gli amaretti, la frutta e i salumi, bicchieri con ghiaccio e cetrioli. Prima di trasformarli in Gin and cucumber, bisogna affettare le ore, assecondare la liturgia, seguire a passo svelto lo stuolo di fratelli italiani, addetti stampa e tecnici del suono che conducono De Niro in uno studio buio per le prove di prammatica. Osservarne le rughe mentre conta fino a tre spostandosi avanti e indietro in direzione della telecamera e riconoscere la mutata andatura di un corpo da sempre al servizio delle sue interpretazioni estreme. In giacca, golf e pantaloni, con il profilo quieto del gitante fuori porta e l’impossibile emozione di chi ha scorto ogni dolore a tempo debito, De Niro siede da giurato tra Sabrina Ferilli e Luca Argentero in attesa che un volo a tarda sera da Ciampino, lo riporti dove nel ’43, ad agosto, ogni cosa ebbe inizio.
Infanzia e similitudini
A guardare gli Amici di Maria, a calarsi nel clima da stadio, ad ascoltare gli scambi tra mèntori e allievi, sostiene serio in una pausa, si è divertito: “Quando iniziai, in un’atmosfera urbana molto simile a questa, avevo esattamente le stesse aspirazioni dei ragazzi che ho incontrato oggi. Trovai sul mio percorso Stella Adler, un’insegnante fantastica che aveva ridisegnato il metodo Stanislavskij e che con le sue lezioni mi cambiò il quadro per sempre. Intorno c’erano capannoni industriali, magazzini e fabbriche all’orizzonte. Abitavo in una Soho totalmente diversa dall’odierna, in un posto in cui nessuno credeva si potesse vivere davvero, con due genitori artisti, due pittori che si erano conosciuti tra tele e colori e fino ai 16 anni non avevo mai immaginato di fare il mio mestiere”. Tra un ballo e una prova di canto: “Sono tutti bravissimi” si intuisce che l’entusiasmo non è una postilla del contratto, ma solo un colpo di pennello alla routine, un innamoramento di contrabbando, lo specchio che riflette la brama di tentare che un giorno, davanti a un televisore, lo persuase al salto: “Avevo interpretato solo un piccolo ruolo da bambino nel Mago di Oz e avevo accarezzato vagamente l’ipotesi di recitare. Poi, già più grande, vidi qualcosa di brutto in tv. E mi convinsi che non avrei potuto far peggio dei caratteristi che riempivano lo schermo. Mi buttai, con la medesima incoscienza che anima chi partecipa a questo programma”.
Mitologia e realtà
Olga Fernando, la traduttrice che ricorda Halle Berry e gli illustra passo dopo passo il funzionamento dello show, lo conosce da anni. Nel ritratto che l’universo di De Niro ama propagare su uno dei suoi figli più noti, non identifica l’introverso prìncipe dell’intervista laconica, il riottoso artista che sul ‘sì’ o sul ‘no’ in corrispondenza di una domanda ha generato leggende, ma altro. Quel che De Niro sembra. Un uomo che quando si tratta di demolire il mito affila l’ironia: “Ma chi le ha detto che sono venuto qui guidando personalmente un Falcon? Ma scherza? Non so come sia uscita questa storia” e si diverte sorprendentemente in compagnia: “Ci saranno più di mille persone di ogni età, qui. Sembrano felici e questo coinvolgimento generazionale che abbatte le differenze, mi rende allegro. Non è affatto vero che io non ami stare con gli altri né che sia misantropo, anzi è vero il contrario. In gruppo ho sempre lavorato e nutrendomi dell’intelligenza di uomini e donne, circondato dalle persone tra un set, un viaggio e una riunione familiare, sono sempre stato molto bene. Quando conobbi Scorsese, dopo averlo incontrato ai tempi in cui ancora portavo i pantaloni corti per l’abitudine di giocare da bambino nei dintorni di casa sua, la sorpresa più consolante, ancor più esaltante di scoprire che esisteva la magìa del cinema, fu capire che c’era un collettivo su cui contare. Un circolo di gente che aveva il tuo stesso obiettivo, parlava un linguaggio simile e con cui si potevano trascorrere le ore alimentando la fantasia. Uno spazio per confessare i tuoi dubbi e le tue incertezze in cerca di una soluzione comune. Fare l’attore è un mestiere complicato in cui comunità e individuo procedono parallelamente. A volte bisogna stare un po’ da soli. Concentrarsi. Trovarsi. Quando lavori su un personaggio, cercare di leggere dentro le sue ombre e immedesimarsi, è indispensabile”.
Il salomonico De Niro
Sarà perché ogni conoscenza costa una fatica, per una delicatezza da ospite inatteso, perché ancora rammenta il clangore delle porte chiuse in faccia o perché nulla di ciò che scruta somiglia alle asprezze della tv di Re per una notte: “Ognuno può avere quel che vuole purché sia disposto a pagarne il prezzo” che il giurato De Niro, chiamato a valutare cantanti e ballerini, si mostra più salomonico del figlio di Re David. Non si scopre. Tituba. Rimane nel mezzo offrendo sponda ideale per il teatro nel teatro. La conduttrice a pungolarlo con talento. Con umorismo. Lui a rifugiarsi fintamente nell’ubiquità di giudizio fino a cedere e ad accettare la sfida. Nel regno dell’iconoclastìa, del santino adorato dal pubblico televisivo e della scenografia in cui Giuliano Peparini evoca anche C’era una volta in America, De Niro si trattiene ma ride spesso. Non si sporge. Non si scopre. E interpreta a modo suo le regole di un cosmo ribaltato in cui in luogo di un pubblico adorante pronto a ricordargli battute, film e Oscar conquistati, i protagonisti di giornata sono altri. I protagonisti di Amici. Però è un professionista. Se c’è da battere il ritmo della musica con il piede sinistro, De Niro lo batte. Se c’è da osservare meglio il ballo afroamericano di Kylie Minogue, tira fuori gli occhiali dal taschino e li inforca come un qualunque spettatore.
Verso casa
Trascorsi 15 minuti dalle 21, quando fuori dallo studio è già buio e la primavera mostra ancora il suo volto invernale, De Niro sale in fretta sulla sua roulotte. Capannello. Applausi. Altre foto. Altre strette di mano. Per il divino Bob è finita. Lo aspettano una macchina e qualche preoccupazione terrena: “Fabio, did ‘u call the airport?”. Il viaggio è l’occasione per parlare ancora. Dei 30 chili messi su per trasformarsi in La Motta per Toro Scatenato: “Un esperimento non diverso da quando andai in Georgia, per Batte il tamburo lentamente allo scopo di conoscere e imitare l’accento degli abitanti di quello Stato o a quando mi recai in Sicilia a metà degli Anni 70 per respirare di persona le atmosfere del Padrino. Tutte cose che non hanno a che fare con una forma di controllo ossessiva, con il perfezionismo o con il rispetto per se stessi, ma solo con un aspetto della mia professione che ho sempre considerato imprescindibile. Prepararmi e sapere quanto più possibile su un personaggio prima di iniziare a girare. Perché l’istinto è fondamentale, ma lo studio forse lo è di più. Al principio pensavo che la componente emotiva rappresentasse quasi tutto, oggi, almeno in parte, ho cambiato idea”.
Inganni e nostalgia
Ogni tanto, tra una riflessione e l’altra, De Niro è chiamato a confrontarsi con la nostalgia. Non la disprezza: “È un riflesso naturale, un modo di tornare con la memoria a quando si era giovani e ogni panorama ci sembrava migliore”, ma ne allontana le trappole e rigetta l’inganno del passato: “Non è giusto dipingerlo costantemente migliore del presente. Tra vent’anni saremo pessimisti come oggi e sosterremo che ieri il mondo era straordinario mentre adesso va a rotoli. È un vizio mentale. Una diversa declinazione del termine pigrizia”. Ogni tanto, tra una curva e l’altra, De Niro guarda fuori dal finestrino. Il cielo è sereno. Tra poco tornerà a New York: “Per cui, a proposito di rimpianti, le persone che l’hanno vista in un’altra era applicano alla città le stesse categorie della nostalgia. Rimane un posto straordinario, una città da godere, un luogo che offre una miracolosa varietà di punti di vista differenti”. Anni fa, quando decise di passare per un istante dall’altra parte della barricata, propriò nella sua terra d’origine: “Dove ancora posso camminare tranquillamente senza che nessuno mi disturbi” De Niro ambientò Bronx. Il suo primo film da regista: “È passato molto tempo e pur avendo chiesto consiglio su come affrontare l’impresa sia a Scorsese che a Danny De Vito, un attore come me, che ancor più di Marty avrebbe potuto darmi qualche buona dritta, non mi ricordo esattamente quali fossero le mie paure. Però ricordo che chiedere aiuto ai miei amici mi parve naturale. Gli amici servono a questo. A parlarti quando ne senti l’urgenza o a sopportarti in silenzio, quando del silenzio c’è bisogno e non serve neanche una parola in più del lecito”.
Personaggi e maschere
Per decifrare i suoi personaggi, in un impasto di cadute, resurrezioni, dominio e abissi di un nero già blu, ci vorrebbero settimane. La macchina corre e De Niro ogni tanto tradisce un dubbio: “Ce la facciamo, vero?”. Un’ansia dolce così vicina ma soprattutto così lontana dalla disperazione dei suoi caratteri trasposti sullo schermo: “Ho interpretato maschere per cui era previsto il lieto fine e uomini terribili. Non li ho mai giudicati e non ho mai avuto timore di farmi travolgere dalla scrittura e dall’eccessiva immedesimazione. In assoluto trovo molto più interessanti i personaggi che toccano il fondo. Quelli più cupi. Quelli che covano un malessere che non riesci a percepire al primo sguardo. Sono più veri, più reali e spesso non conoscono redenzione”. Nel rimandare indietro la pellicola, mentre le prime indicazioni della terra promessa scorrono ai lati della strada, De Niro individua in una cena il motore capace di alimentare mezzo secolo di ciak: “Un mio amico, Jay Cox, organizzò un simposio per farmi conoscere Scorsese. Fu un colpo di fortuna perché la fortuna, se lo ricordi, c’entra sempre. Sapevo che Marty studiava regìa e nell’appartamento di Jay, tra un bicchiere di vino e l’altro, io e Marty parlammo fino a tarda notte. Voleva mettere in piedi una sceneggiatura che parlasse di amicizia, durezze e vita reale. Sognava Mean Streets. Discutemmo del film e della possibilità di ottenere un ruolo. Mi ero innamorato dell’idea di avere la parte che poi sarebbe toccata a Keitel. Così andai da Harvey e senza pudore, gli proposi lo scambio”. Quarant’anni dopo, mentre pensa a una biografia: “Mi toccherà ordinare le tappe e rivedere i miei film come mi proibisco di fare da anni”, gli pare che non ci potesse essere un destino differente: “Non riesco a pensare neanche per un secondo che avrei potuto fare un altro lavoro. È un’immaginazione che va al di là della mia stessa immaginazione. Sono stato e sono un attore. Ho recitato, sofferto, mi sono divertito, ho imparato moltissimo”. Sorride, scende dall’auto, tende la mano, esaudisce l’ultima curiosità. Il rapporto dialettico con Bertolucci. Sul set discussero animatamente prima di capirsi, abbracciarsi e dar luce all’affresco di Novecento: “Ero molto giovane e non capivo perché si dovesse iniziare a girare partendo dalla fine. Dall’ultimo tassello. Fu dura. Oggi sarebbe diverso. Ho un’altra età. L’età giusta per ascoltare, capire le cose, dare loro il giusto peso”.