Natalie Angier, la Repubblica 2/4/2014, 2 aprile 2014
ECCO PERCHÉ ESSERE CATTIVI PUÒ AIUTARCI A VIVERE MEGLIO
L’ILIADE sarà pure un caposaldo della letteratura occidentale, ma la sua trama si basa su un impulso umano che siamo soliti considerare piuttosto meschino: l’astio, la cattiveria, il disprezzo. Achille nutre contro Agamennone un aspro rancore («Mi ha ingannato... Vada in malora…»), e pur di prolungare la sofferenza del re rinuncia a doni, tributi e persino a riprendersi la propria amante Briseide.
Dopo essersi concentrati per decenni su dei pilastri della cattiva condotta quali l’aggressività, l’egoismo, il narcisismo e l’avidità, gli scienziati hanno adesso rivolto la propria attenzione al tema più sottile del dispetto, ovvero il desiderio di punire, umiliare o tormentare un’altra persona anche quando ciò non ci porta alcun ovvio vantaggio e potrebbe anzi avere un costo. Dal nuovo studio si deduce che al pari dei due tratti di una stessa V, vizio e virtù potrebbero essere inestricabilmente collegati tra loro.
David K. Marcus, psicologo presso la Washington State University, ha presentato sulla rivista Psychological Assessment i risultati preliminari di nuova «scala di cattiveria» da lui messa a punto insieme ad alcuni colleghi. Marcus e la sua équipe hanno chiesto a 946 studenti e 297 adulti di assegnare a diciassette situazioni un voto sulla base del loro grado di condivisione rispetto a quanto in esse contenuto. L’elenco comprendeva affermazioni come: «Se il mio vicino si lamentasse dell’aspetto del mio giardino, sarei tentato di trascurarlo ancora di più solo per dargli fastidio », oppure «Sarei disposto a prendermi un pugno se in cambio una persona che non mi piace ne ricevesse due».
Gli uomini si sono dimostrati di norma più dispettosi delle donne, e i giovani più dispettosi degli anziani; dallo studio è emerso inoltre che il dispetto si accompagna di solito a tratti quali l’insensibilità, il machiavellismo e una scarsa fiducia di sé, mentre di norma non si concilia con la gentilezza, la coscienziosità o la tendenza a provare sensi di colpa.
Applicando la teoria del gioco per sondare il comportamento sociale degli esseri umani, il teorico dell’evoluzione Patrick Forber, della Tufts University, e Rory Smead della Northeastern Univeristy, hanno creato al computer un modello nel quale alcuni giocatori virtuali si sfidano a vicenda. In base alle regole da loro stabilite, il giocatore A decide in che modo spartire una somma di denaro con il giocatore B: fare a metà o tenere l’ottanta per cento per sé e dare a B il restante venti. Se B acconsente, entrambi ricevono la percentuale pattuita. Gli studiosi hanno lasciato che i giocatori si coalizzassero a piacere, e sono rimasti stupiti dai risultati: coloro che dimostravano maggiore flessibilità nel condividere il denaro non solo hanno dato prova di saper trattare con i tipi più dispettosi, ma la presenza di questi ultimi ha prodotto un effetto positivo, incrementando la percentuale degli scambi equi anche tra gli individui ben disposti.
Gli esiti della ricerca riecheggiano quelli emersi da studi recenti, dai quali si evince che onestà e cooperazione richiedono una certa dose di quella che viene detta «punizione altruistica », ovvero la disponibilità di alcuni individui a punire chi viene meno alle regole anche quando la violazione in questione non li lede direttamente. Omar Tonsi Eldakar, dell’università Nova Southeastern, in Florida, ha studiato il nesso tra comportamento collaborativo e punizione egoistica. «Perché si dà sempre per scontato che a punire debbano essere i buoni? », si è domandato. Utilizzando dei modelli teorici di gioco, il dottor Eldakar ha dimostrato che quando dei giocatori egoisti decisi ad ottimizzare i propri profitti puniscono regolarmente gli altri giocatori o li escludono dal gruppo, gli scambi egoistici nel complesso diminuiscono sino a raggiungere un livello ragionevolmente stabile. «Gli egoisti finiscono per ridurre la criminalità nei territori da loro stessi abitati», spiega il dottor Eldakar. Agamennone ha bisogno del suo Achille.
( ©New York Times La Repubblica Traduzione Marzia Porta)